Il fine non giustifica i mezzi
— 29 Maggio 2015 — pubblicato da Redazione. —…E qui il discorso si può senz’altro allargare a coloro che aspirano ai primi posti anche nel campo della cultura, della scienza, della teologia, delle cariche ecclesiastiche. E qui abbiamo l’esplosione del farisaismo, triste deformazione della vita spirituale e della vocazione del teologo e del pastore, piaga che non risparmia nessun secolo della storia del cristianesimo, scandalosa invasione e soffocamento dello spirituale ad opera di interessi terreni più o meno peccaminosi, soprattutto di potere, di dominio, di efficienza, di prestigio, di successo. Qui è messa in opera l’astuzia più pericolosa e più vicina a quella del serpente della Genesi, perché, se quella del politico approfittatore danneggia o delude nei beni economici, quella del cattivo pastore, del falso profeta o del teologastro manda l’anima all’inferno.
Conosciamo tutti l’assioma che riassume la dottrina del Machiavelli circa i doveri del principe: “il fine giustifica i mezzi”, benchè questo principio non si trovi nel testo machiavelliano con queste precise parole. Esso vuol significare che, se il fine è buono, qualunque mezzo che serve al conseguimento del fine, è per ciò stesso giusto e buono o, se è cattivo, diventa buono. Sappiamo altresì come questa massima di Machiavelli sia stata respinta da molti. Notevole, per esempio, è il saggio di Jacques Maritain “La fin du machiavelisme” in Raison et Raisons . Qui vorrei approfondire in modo speciale la sua critica. Citiamo innanzitutto le parole del Segretario Fiorentino contenute nel famoso Principe:
« Quanto sia laudabile mantenere la fede, e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende. Nondimeno si vede per esperienza ne’ nostri tempi, quelli prìncipi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla lealtà… Ardirò di dire questo, che avendole (le buone qualità) ed osservandole sempre, sono dannose, e parendo d’averle, son utili; come parere pietoso, fedele, umano, intiero, ed essere; ma stare in modo edificato con l’animo che, bisognando non essere, tu possa e sappia mutare in contrario… Un uomo che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene che rovini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario imparare a poter essere non buono, ed usarlo e non usarlo secondo la necessità, mezzo uomo, mezzo bestia, ora volpe, ora leone… Quello che ha saputo meglio usare la volpe, è meglio capitato… Ma sempre gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l’infamia di quegli vizi che gli torrebbero lo stato… Se gli uomini fossero tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono. Ma perché sono tristi, e non lo osserverebbero a te, tu ancora non l’hai da osservare a loro ».
Il difetto di questo ragionamento del Machiavelli non sta, come potrebbe apparire, nell’ammettere che, per raggiungere certi fini, può essere utile valersi in casi speciali di mezzi che in genere sono proibiti. Se Machiavelli si fermasse a ciò, avrebbe ragione. Ciò però non significa coonestare un atto in sé cattivo. Ma ciò non vuol dire neppure che sia impossibile rivestire un atto genericamente cattivo di circostanze che nella fattispecie lo rendono buono. Infatti, come si sa, la stessa morale tradizionale, ammette come legittima difesa l’uccisione dell’ingiusto aggressore. Così pure anche la menzogna, che nel suo genere è un male, perchè priva chi ascolta del diritto di sapere la verità, in certi casi, può configurarsi come legittima difesa contro chi potrebbe servirsi della notizia per fare del male, e quindi può divenire lecita, come risulta dal comportamento di Raab, narrato nella Bibbia [Gs 2,1-21], la quale viene premiata [Gs 6, 22-25] e lodata nella Lettera Ebrei [Eb 11,31] e da San Giacomo [Gc 2,25].
Esistono invece atti cattivi che non possono mai diventare buoni, neppure per certe circostanze. Ed è qui che Machiavelli cade, perché per lui non esiste alcun atto assolutamente cattivo, mentre d’altra parte non crede che il bene vada sempre ed assolutamente cercato. Un completo stravolgimento della morale; il peccato diventa comandato, mentre la virtù viene disprezzata.
Non si tratta, come alcuni dicono, dell’indipendenza della politica della morale. L’azione politica, in quanto atto umano, è semplicemente un atto morale avente come scopo la cura del bene comune. Morale e politica non possono ignorarsi a vicenda, ma la politica non è altro che l’applicazione del principio morale nell’ambito dei rapporti sociali. La politica semplicemente deve determinare nel campo sociale ciò che la legge morale lascia indeterminato; ma non può assolutamente contrastarlo. Nessuno autorizza il politico ad essere un furfante in nome della politica. Ma anche il politico, proprio come politico, è chiamato, nel cristianesimo, a farsi santo. Il Machiavelli, per imparare queste cose, aveva sotto gli occhi gli insegnamenti splendidi del Savonorola; ma non seppe trarne alcun profitto.
Questo relativismo e opportunismo morale Machiavelli lo rivela anche nel confondere la prudenza con l’astuzia, come appare già evidente dall’uso indifferente che Machiavelli fa delle due parole. Ciò vuol dire che raccomanda il vizio al posto della virtù, giacchè come insegna San Tommaso l’astuzia è una falsa prudenza per la quale «aliquis, ad finem aliquem consequendum, vel bonum vel malum, utitur non veris viis, sed simulatis et apparentibus ».
Ed è proprio quello che fa l’astuto: per raggiungere il suo fine, che peraltro non appare essere necessariamente un fine buono – “fare gran cose” non vuole ancora dir nulla – finge di essere buono, integro ed onesto, ma in realtà non lo è. Dunque l’astuzia è la compagna dell’ipocrisia.
Un Salmo della Scrittura loda l’astuzia nei confronti del “perverso” [Sal 17,27]. Ma trattandosi di difendersi contro un malfattore, allora è chiaro che va intesa nel senso della prudenza, di quella prudenza, nella quale Cristo dice che dobbiamo imitare i serpenti. Viceversa, il principe di Machiavelli non si fa scrupolo di ingannare, danneggiare o sfruttare anche gli innocenti, pur di raggiungere le sue mire di dominio e di potere.
Per Machiavelli la bontà non appare un fine assoluto, ma il fine è appunto questo fare “grandi cose”, il che può essere semplicemente una volontà di potenza o di autoaffermazione. E se, a servizio di tal fine, serve la bontà, bene, ma se serve la malvagità, bene lo stesso. In un ambiente di malvagi, il singolo, per Machiavelli, se vuole far fortuna ed affermarsi o quanto meno sopravvivere, deve a sua volta essere malvagio. Egli, per dar forza al suo ragionamento sofistico, non concepisce che il dovere di essere buono, sia, per dirla con Kant, un imperativo categorico, a parte il fatto che difficilmente incontreremo una società di puri malvagi, nella quale non brilli una qualche luce di bontà.
Una cosa è certa: che Machiavelli non era assolutamente in grado di capire il valore del martirio. E’ evidente che Machiavelli nelle sue considerazioni è mosso da una semplice prospettiva terrena. Il destino dell’uomo si risolve in questo mondo, perdere in questo mondo vuol dire perdere tutto. Essere sconfitti quaggiù per essere fedeli ad un ideale oltremondano per Machiavelli non ha senso. Dal che si vede la sua radicale impostazione non dico anti-cristiana, ma addirittura materialista, perché anche saggi antichi come Socrate e Platone, seppero elevare lo sguardo al di là di interessi e mire meramente terreni per ascoltare l’imperativo assoluto ed incondizionato del valore morale presente nella coscienza.
Con l’esempio formidabile sotto i suoi occhi di un Savonarola, Machiavelli si limitò ad un modesto elogio, forse senza rendersi conto che l’esempio dell’eroico frate era una smentita radicale alla sua logica della
prepotenza. Bisogna osservare inoltre che, se il mezzo non è assolutamente buono, nessuna circostanza può renderlo buono la bontà del fine non può renderlo buono. Il fine quindi non può giustificare un mezzo cattivo, così come Dio giustifica il peccatore facendolo diventare buono. Il rubare per dare ai poveri resta sempre un rubare, anche se il dare ai poveri è encomiabile. Perchè il mezzo sia buono non basta che raggiunga efficacemente il fine; dev’essere buono in se stesso. Certo il rubare per dare ai poveri può essere un mezzo efficace per beneficare i poveri, il furto resta sempre un furto.
Così pure, se un mezzo è assolutamente cattivo, non può diventare buono. Questa impressione potrebbero darla l’omicidio e la menzogna. Senonchè essi non sono atti cattivi come tali, ma solo l’omicidio di un innocente e la menzogna all’innocente. In caso contrario, come abbiamo visto, può esser lecito uccidere o ingannare il malfattore. Abbiamo qui dunque uno stravolgimento di valori, per il quale la bontà è al servizio della malvagità. C’è comunque l’amaro presupposto che il bene non può vincere il male, soprattutto nel rapporto sociale: tanto vale allora imboccare di proposito la strada del male nella falsa idea di potersi così difendersi e farsi valere. Dato che gli altri sono malvagi, se vuoi sopravvivere ed affermarti, dei essere malvagio anche tu.
Machiavelli sembra sdoppiare assurdamente l’idea del bene, quasi debba o possa esistere un super-bene dell’uomo “al di là del bene e del male”, figure relative e funzionali al bene supremo, indifferente al bene e al male o sintesi di entrambi. Qui Machiavelli sembra precorrere Nietzsche. Il bene sembra consistere proprio in questa oscillazione, in questo giocare abilmente tra il bene e il male a seconda delle convenienze. È la doppiezza eretta a sistema, agli antipodi della franchezza e della linearità evangelica del “Sì, sì, no, no”. Non si dà un bene puro ed assoluto separato dal male; ma un legame indissolubile tra di essi, che sembra già precorre la dialettica hegeliana.
Al principe machiavelliano non interessa il servizio al bene comune, ma solo al proprio: mantenere stretto in mano il potere, quale che sia, e dominare gli altri. Deve certo esser generoso e altruista; ma solo quando gli conviene. Ma nel complesso deve fingere, se vuole aver successo e conservare il potere. L’importante non è essere onesto, ma far credere agli alti di esserlo. Da qui si capisce che cosa il Machiavelli propone al suo principe: l’importante non è servire il popolo, ma solo darne l’apparenza. L’importante è stare a galla in ogni frangente mediante l’onestà e mediante la disonestà. La storia peraltro dimostra che anche coloro che seguono queste idee non sempre fanno fortuna ed anzi spesso finiscono male, mentre leaders politici, capi di Stato, sovrani onesti e coraggiosi, anche se pure per loro non va sempre bene, tuttavia possono avere un grande successo, come dimostrano gli esempi in figure nobilissime, come quella di un San Luigi IX, un San Venceslao, un Carlo Magno nel passato e nei nostri tempi Alcide De Gasperi, Giorgio La Pira, Aldo Moro, Benigno Zaccagnini, John Kennedy, Martin Luther King, Gandhi e tanti altri. Per non parlare dei grandi Pontefici della storia.
Il principe machiavelliano dev’essere inoltre un artista in fatto di ciurmeria, sempre per avere in mano il potere di dominare gli altri. A tal riguardo suscitano tutta l’ammirazione dell’astuto Fiorentino coloro che “hanno saputo con l’astuzia aggirare i cervelli degli uomini”. E qui il discorso si può senz’altro allargare a coloro che aspirano ai primi posti anche al di fuori della politica, nel campo della cultura, della scienza, della teologia, delle cariche ecclesiastiche. E qui abbiamo l’esplosione del farisaismo, triste deformazione della vita spirituale e della vocazione del teologo e del pastore, piaga che non risparmia nessun secolo della storia del cristianesimo, scandalosa invasione e soffocamento dello spirituale ad opera di interessi terreni più o meno peccaminosi, soprattutto di potere, di dominio, di efficienza, di prestigio, di successo. Qui è messa in opera l’astuzia più pericolosa e più vicina a quella del serpente della Genesi [Gen 3,1], perché, se quella del politico approfittatore danneggia o delude nei beni economici, quella del cattivo pastore, del falso profeta o del teologastro manda l’anima all’inferno.
Uno di maggiori guai che affliggono la Chiesa di oggi è precisamente il moltiplicarsi di questi soggetti, titolati o non titolati, dilettanti o professionisti, i quali, come mi diceva un mio Superiore domenicano, — non so se con queste parole si rendesse conto di ripetere il Machiavelli —, « stravolgono la mente dei fedeli ».
Un altro difetto del Machiavelli è l’eccessiva importanza che egli dà al successo terreno. Nessun dubbio che il programma politico del principe mira al successo e può esservi attaccato più di quanto un vescovo o un teologo si attendano successo dalla loro attività. Eppure, anche il principe cristiano non deve esser troppo attaccato al successo e, pur di restar fedele a princìpi di onestà, deve saper accettare anche l’insuccesso. Meglio un insuccesso ma con la coscienza pulita che un gran successo ottenuto con inganni, corruzione e disonestà: “quella sottile astuzia che tende a trarre nell’errore” [Ef 4,14]. Oggi, soprattutto dietro il formidabile impulso che viene dalla Chiesa a partire da Leone XIII fino al Papa attuale, molte voci si sono levate per sottolineare ed esaltare la dignità morale dell’agire politico al servizio del bene comune e lo stretto nesso che una sana etica politica deve avere con quella del Vangelo.
Oggi più di un tempo molti, soprattutto giovani, capiscono ed apprezzano quanto è nobile e mirabile dedicare la propria vita al bene degli altri, magari solo per motivi umanitari, al risanamento della politica, all’instaurazione e promozione della giustizia sociale, alla difesa degli oppressi a costo di sacrifici e dell’insuccesso e a rischio addirittura della propria vita. Dopo l’amara esperienza delle dittature del secolo scorso sembra di constatare una diffusa ripugnanza, almeno nei paesi occidentali non islamici e non comunisti o di destra nei confronti del modello machiavelliano del capo di Stato o del sovrano o, del dirigente politico. Questo non vuol dire che il machiavellismo sia stato sconfitto nella società come nella Chiesa. Esso è quindi quelle male piante seminate dal peccato originale, che sempre rinascono se non siamo pronti a strapparle col rimedio dell’onestà, della giustizia e della carità.
Fonte: Il fine non giustifica i mezzi | Isola di Patmos