La prima ragione attiene al diritto. La nostra Costituzione, come quella tedesca, prodotta subito dopo la fine della guerra, ha un impianto chiaramente giusnaturalistico. Certamente vi è chi, oggi, nega questa evidenza; ma le cose stanno proprio così. Il tramonto del fascismo e del nazismo mostrarono al mondo, ma prima ancora ai giuristi che ne erano stati artefici, di che lacrime e di che sangue grondassero le grandi costruzioni giuridiche edificate dalle dittature grazie alle orge del positivismo giuridico; cioè svelarono come si fosse potuto giungere ad aberrazioni grazie a un modo di intendere il diritto solo come diritto positivo, come legge, quindi come volontà del più forte che si espande senza limiti.
Reagendo a tale cultura, che aveva portato a drammi come quelli della legislazione razziale, la Costituzione italiana – così come quella tedesca – volle ancorare il legislatore positivo, limitandone il potere, al diritto naturale, vale a dire alla ragione sottostante alla realtà delle cose. Ecco quindi l’art. 2, per il quale, come noto, i diritti fondamentali non sono dati dallo Stato, ma sono a lui preesistenti, sono insiti nella dignità della persona umana, sicché sono eguali sempre, dappertutto e per tutti. Ciascuno di noi è portatore di tali diritti e davanti a essi il legislatore positivo deve arrestarsi. Lo stesso vale per la famiglia, detta «società naturale» dall’art. 29 : espressione che non significa affatto rinuncia a dare una definizione ma che, tutto al contrario, costituisce una definizione bella e buona. Chiamandola «società naturale», infatti, la Costituzione repubblicana vuole dire che la famiglia nella sua struttura profonda non è creata dallo Stato, ma che ad esso è preesistente; è sottratta alla sua volontà manipolatrice; non è soggetta neppure allo “spirito del tempo”. Possono mutare nel tempo aspetti contingenti (si pensi, ad esempio, all’istituto della dote di una volta, ora scomparso), ma i caratteri fondamentali e distintivi che differenziano la famiglia da qualsiasi altra formazione sociale non possono essere modificati, pena che si finisca per chiamare famiglia qualcosa che in realtà famiglia non è.
La seconda ragione è di carattere storico. La famiglia è sempre stata intesa, in qualsiasi civiltà e cultura, come la formazione sociale fondata da persone di sesso diverso. I romani, ad esempio, parlavano della famiglia come comunità di tutta la vita tra un uomo e una donna, disciplinata dal diritto divino e dal diritto umano: il primo immutabile, delineante la struttura fondamentale dell’istituto (in sostanza quello che chiamiamo diritto naturale); il secondo corollario contingente e storicamente mutabile, che però del matrimonio non può intaccare la sostanza.
Vero è che la storia ha conosciuto, nell’antica Roma e altrove, la pratica dell’omosessualità; che può averla ammessa e talora legittimata. Ma mai nella storia si sono confuse le relazioni tra persone dello stesso sesso con il matrimonio. Come mai nella storia si è pensato che i rapporti affettivi dovessero essere contrattualizzati: anche quelli matrimoniali. In effetti l’amore, come più volte è stato argomentato anche su queste colonne, sfugge a ogni misurazione giuridica e il matrimonio non è il “contratto dell’amore”. Tant’è che un matrimonio senza amore può pure essere un matrimonio valido. Dunque se la natura conforma, la storia conferma.