Ama davvero chi spalanca all’eterno. Come Beatrice
— 9 Giugno 2015 — pubblicato da Redazione. —Nel canto I del Paradiso Dante si trova ancora nell’Eden, di fronte all’amata Beatrice, la quale sta guardando il Sole, come nessuna creatura è in grado di fare. Neppure un’aquila riesce a sostenere la vista della luce del Sole così a lungo. A questo punto il poeta fiorentino descrive in maniera geniale e sintetica la sua concezione dell’educazione: «E sì come secondo raggio suole/ uscir del primo e risalire in suso,/ pur come pelegrin che tornar vuole,/ così de l’atto suo, per li occhi infuso/ ne l’imagine mia, il mio si fece,/ e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso». Ovvero Dante, guardando negli occhi Beatrice, a sua volta inizia a guardare il Sole come per processo osmotico.
L’uomo impara sempre imitando un altro che ha già imparato, guardando un altro che sta camminando nella vita. Lo scrittore si avvale di una doppia immagine per spiegare il processo di imitazione: come un raggio riflesso che esce da un raggio incidente, come un pellegrino che è arrivato alla meta e poi torna indietro. Sono due immagini tratte dalla fisica e dalla storia medioevale. L’uomo medioevale si percepisce come homo viator, un uomo che è in viaggio, sempre in movimento verso la vera patria. Dante inizia a guardare in alto perché sta guardando Beatrice, ma Beatrice, pur se non vede il poeta da dieci anni, non vuole trattenerlo su di sé, ma desidera indirizzarlo verso il Cielo, il bene, la verità, l’assoluto. Una persona che davvero ama non trattiene l’altro su di sé, ma gli indica la strada buona, la verità, la bellezza, la bontà. Questa è la vera educazione. La Beatrice del Paradiso non si comporta come donna amata, ma come maestra che spalanca il cuore di Dante. Spalancare il cuore vuole dire indirizzare al desiderio dell’assoluto. Scrive A. De Saint Exupery nella Cittadella: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini. Ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito». Nella stessa opera compare la figura del capo che istruisce i generali spronandoli a essere pienamente uomini mantenendo vivo il desiderio. Confessa loro: «Voi non vincerete perché cercate la perfezione. […] La torre, la roccaforte o l’impero crescono come l’albero. Esse sono manifestazioni della vita in quanto è necessario che ci sia l’uomo perché nascano. E l’uomo crede di calcolare. Crede che la ragione governi la costruzione delle sue pietre, quando invece la costruzione con quelle pietre è nata dapprima dal suo desiderio. […] I suoi calcoli non fanno altro che dare forma al suo desiderio e illustrarlo. […] Voi perderete la guerra se non desiderate nulla».
Beatrice sta educando Dante a non rimanere in continuazione a guardarla negli occhi, perché un rapporto vero spalanca all’altro, non trattiene su di sé, ma spalanca a qualcosa di più grande. Un’amicizia vera e un amore autentico aprono agli altri, non rinchiudono. Beatrice sta educando Dante a perseguire la meta, che c’è. La realtà è positiva. Non bisogna rimanere chiusi, concentrati solo sulla persona amata o sull’amico o sul maestro che abbiamo incontrato nella vita. Per questo motivo il poeta fiorentino ha fatto uscire di scena il maestro Virgilio senza troppi rimpianti e nostalgie. Una volta che il compito del maestro è stato adempiuto, Dante continua la strada con un nuovo maestro, Beatrice. Il maestro non è un idolo. Quanto sta spiegando Dante nel primo canto del Paradiso è molto attuale per la società contemporanea, in cui abbiamo davanti a noi molti idoli, che mostrano non la verità e la bellezza, ma se stessi come risposta al bisogno e alle domande dell’uomo. Gli idoli non sono compagnia nel cammino dell’esistenza. Se lo fossero, mostrerebbero tutta la loro inconsistenza. Gli idoli sembrano affascinare per la loro presunta autonomia, per l’autosufficienza, come se fossero in grado di darsi la felicità da soli. L’uomo autentico, il giovane come l’adulto, percepisce che non ha bisogno di idoli, ma di maestri. Oggi è sempre più necessaria la presenza di maestri. Il maestro, colui che guida e che è autorevole, non rimanda mai a sé come risposta ai problemi della vita, ma comunica altro, indirizza al bene e conquista gli altri proprio perché non avvinghia a sé.
Il maestro sprona al «desiderio del mare aperto», non si sofferma sulla noia del particolare slegato dal desiderio di navigare. Se si togliesse la brama del navigare, per quale motivo si dovrebbe faticare a tagliare la legna per costruire la barca? E ancora, come si può educare qualcuno intimorendolo, facendogli pensare che nella vita bisogna avere soltanto paura? Che cosa possiamo dare a noi stessi e che cosa ai nostri figli, alle persone cui vogliamo bene, se non il bello e il vero che incontriamo? I divi idolatrati, invece, presentano sé come la soluzione. Anche Beatrice più tardi si farà da parte, perché non sarà lei ad accompagnare Dante alla visione di Dio.
Quando Dante inizia a guardare il Cielo, qualcosa di straordinario inizia ad accadere, non descrivibile a parole. Scrive il sommo poeta: «Trasumanar significar per verba/ non si poria; però l’esemplo basti/ a cui esperïenza grazia serba». Per comunicare la sua esperienza Dante conia un nuovo verbo, «transumanar», ovvero andare oltre la condizione umana, non percepire più il limite del corpo, sentirsi oltre la condizione umana, o, forse meglio, pienamente uomo. Tutti noi abbiamo sperimentato che quando la nostra esperienza è grande e significativa è difficile comunicarla a parole, perché abbiamo l’impressione di banalizzarla. Per questo Dante ricorre alla explanatio per argumenta exemplorum ovvero alla spiegazione attraverso l’uso degli esempi, espediente che è tipico dei trattati di mistica. Scrive Dante: «Nel suo aspetto tal dentro mi fei,/ qual si fé Glauco nel gustar de l’erba/ che ‘l fé consorto in mar de li altri dèi». L’esempio è tratto dalle Metamorfosi di Ovidio. Il pescatore Glauco si era accorto che dei pesciolini nutrendosi di erbe marine avevano recuperato energia e ripreso vigore. Così anche lui decide di nutrirsene e si trasforma in una divinità marina. Dante sta provando una sensazione straordinaria, quella di andare oltre il limite umano, di non sentirsi più uomo, non sente più l’impaccio del corpo e il peso del peccato. Santa Caterina da Genova scrive che Inferno, Purgatorio e Paradiso sono situazioni che noi possiamo sperimentare in vita. Noi possiamo sperimentare il Paradiso in terra già sperimentando la purificazione dal peccato e il perdono.
Dante vede una luce di un’intensità mai percepita e una musica così soave quale non ha mai sentito in Terra. Così è preso da un dubbio. Nel Paradiso Beatrice capisce Dante prima che questi esprima i suoi desideri. Se nell’Inferno Dante parlava fin troppo all’inizio del viaggio e ha imparato a chiedere il dovuto al momento opportuno, nel Paradiso non c’è neanche bisogno di chiedere, perché la carità dei santi previene le domande: «Tu stesso ti fai grosso/ col falso imaginar, sì che non vedi/ ciò che vedresti se l’avessi scosso./ Tu non se’ in terra, sì come tu credi;/ ma folgore, fuggendo il proprio sito,/ non corse come tu ch’ad esso riedi». Beatrice spiega che non si trovano più in Terra, ma che stanno salendo verso il Cielo con una velocità maggiore a quella di un fulmine che scende verso terra. A questo punto nella mente di Dante sorgerà un dubbio ancor maggiore. Come è possibile salire verso l’alto con il proprio corpo, quando siamo ancora in vita? Ovvero come può l’uomo far esperienza del cielo prima della morte? Lo vedremo la prossima volta.
Fonte: LaNuovaBQ