In un saggio di poetica e di bilancio ( Esordio, 1924), Ungaretti osserva che nel XX secolo «permane l’influenza di Dostoevskij, il senso delle voragini dell’anima»; e per perlustrare queste voragini visse Dostoevskij [Mosca 1821-San Pietroburgo 1881], per uscire dalle spire dell’«uomo finito» (dirà più tardi Papini), dalla «malattia» della «coscienza ipertrofica » e dal «progresso» della «civiltà europea »: «proprio nulla sono riuscito a diventare: né cattivo, né buono, né furfante, né onesto, né eroe, né insetto. E ora vegeto nel mio cantuccio, punzecchiandomi con la maligna e perfettamente vana consolazione che l’uomo intelligente non può diventare seriamente qualcosa, ma diventa qualcosa soltanto lo sciocco. Sissignori, l’uomo intelligente del diciannovesimo secolo deve ed è moralmente obbligato a essere una creatura essenzialmente priva di carattere; mentre l’uomo di carattere, l’uomo d’azione, dev’essere una creatura essenzialmente limitata» (tutte le citazioni da Memorie del sottosuolo, 1864).
Egli radicalizza (in Delitto e castigo, 1866, e nei Demoni, 1871) il bisogno sacrificale di violenza, di potere individuale e collettivo, di sete di distruzione e di onnipotenza, come nel finale dei Demoniche già annuncia le immani dittature del XX secolo: «Per scuotere sistematicamente le basi, per decomporre sistematicamente la società e tutti i princìpi; per gettare tutti nello scoraggiamento e creare il caos, e poi, tutto a un tratto, prendere in mano la società ormai sconquassata, malata e demoralizzata, cinica e atea, ma infinitamente assetata di una qualche idea direttiva ». Questa sete di appagamento è nutrita dal rovello incessante dei bisogni e l’incremento dei bisogni invoca l’aumento di potenza: «Il mondo dice: ‘Hai dei bisogni, e allora appagali […]. Non temere di appagarli, anzi incrementali’. Ecco quel che predica oggi il mondo. Ma che cosa provoca questo incrementare i propri bisogni? Nei ricchi la solitudine e il suicidio morale; nei poveri l’invidia e l’omicidio, perché i diritti sono stati concessi, ma i mezzi per appagare i propri bisogni non li hanno ancora indicati» (è la chiosa dello Starets Zosima nei Fratelli Karamazov, 1878-1880).
Tutto in Dostoevskij è conflitto, agone apocalittico: «È il diavolo a lottare con Dio, e il loro campo di battaglia è il cuore degli uomini» ( I fratelli Karamazov); e Dio è l’ultimo garante, e anche l’ultimo ostacolo da abbattere affinché possa instaurarsi, come in Nietzsche, l’’egoarchia’: «Poiché Dio e l’immortalità comunque non esistono, all’uomo nuovo, fosse pure a uno solo in tutto il mondo, è lecito diventare l’uomodio, e naturalmente nella sua nuova qualità gli è lecito scavalcare a cuor leggero tutte le barriere morali dell’antico uomoschiavo, se ciò dovesse essere necessario. Al di sopra di Dio non ci sono leggi! Dove si mette Dio, lì è il suo posto! E dove mi metterò io, quello sarà subito il primo posto… ‘Tutto è permesso e basta’» ( I fratelli Karamazov).
Di Dostoevskij si è ammirata e si ammira questa tensione, quasi manichea, di lotta tra il Bene e il Male; affascina l’apologo del Grande Inquisitore e la sua sottile e beffarda consapevolezza dei limiti dell’uomo: «Ti giuro, l’uomo è stato creato più debole e più vile di quanto tu pensassi! Può forse eguagliarti in ciò che hai fatto? Stimandolo tanto, hai agito come se cessassi di averne compassione perché troppo hai preteso da lui, e chi ha fatto questo: Colui che l’amava più di se stesso! Se lo avessi stimato di meno, avresti preteso anche meno da lui, perché più lieve sarebbe stato il suo fardello»; e ancora, nella stessa requisitoria di Ivan: «Bramavi un amore libero e non il servile fervore di uno schiavo dinanzi al potente che l’atterrisce per sempre. Ma anche qui tu hai tenuto troppo in conto gli uomini poiché essi sono di certo degli schiavi».
Si manifesta una totale svalutazione della libertà umana, tipica del luterano De servo arbitrio; la certezza, insomma, che l’umanità non è che gregge e servile passività: «Oh, noi li convinceremo che saranno liberi soltanto quando rinunceranno alla loro libertà in nostro favore e si assoggetteranno a noi. Ebbene, avremo ragione o mentiremo? Essi stessi si persuaderanno che abbiamo ragione perché rammenteranno a quale orrenda schiavitù e a quale orrendo turbamento li avesse condotti la tua libertà. La libertà, il libero pensiero e la scienza li condurranno in tali labirinti […] che alcuni di loro, indocili e violenti, si distruggeranno da sé, mentre altri, indocili ma deboli, si stermineranno fra loro, e gli ultimi rimasti, deboli e infelici, strisceranno ai nostri piedi e ci grideranno: ‘Sì, avevate ragione […] salvateci da noi stessi’» ( I fratelli Karamazov).
Quell’ultimo poderoso romanzo oggi crea disagio per il mescolarsi di ‘ragion di stato’, di servitù e di vana purezza divina; l’accento di un soffrire più raccolto sottende Umiliati e offesi, 1861, e soprattutto L’Idiota, 1869. L’inutile derelizione è già pegno di salvezza, il gratuito di un amore in pura perdita, come nella splendida pagina ove il principe Myškin dichiara, in un biglietto, il proprio amore per Aglaja e questa lo ripone, involontaria agnizione, «in un grosso libro solidamente rilegato (faceva sempre così con le sue carte, per trovarle più in fretta quando ne aveva bisogno). E soltanto dopo una settimana le accadde di guardare che libro fosse. Era Don Chisciotte della Mancia » (parte II, cap. 1). È il «cavaliere povero» di cui parlerà Kolja: l’eroe e il folle ai margini di tutto, il principe reietto, il Christus patiens di cui parlano i ‘Quaderni preparatori’ dell’Idiota: «Tratti del carattere del principe: nullità, sottomissione, umiltà» (Quaderno 10). Sì che nello Scioglimento appaia infine «Il principe – il Cristo» e la storia senza fine degli umili: «L’umiltà è la più grande forza che possa esistere nel mondo!», il loro inutile trascorrere sulla scena del mondo. Il principe, L’idiota, «un imbecille qualsiasi », caduto così in basso che suo sarà l’orlo di un manto di polvere: «E proprio quando sono al fondo della vergogna, innalzo allora un inno. Che sia pure maledetto, vile, meschino purché possa baciare anch’io l’orlo della tunica in cui si avvolge il mio Dio» (Dimítrij neiFratelli Karamazov).
Fonte: Avvenire.it