Guardando alla Siria, dove «ogni giorno è un dono»
— 30 Giugno 2015 — pubblicato da Redazione. —Un gruppo di dipendenti di due aziende dell’interland milanese è colpito dalla fede dei cristiani perseguitati. Ogni giorno si trovano a pregare per loro. Poi, quella mail di don Alejandro, con cui inizia un’amicizia. Fino all’incontro con lui
«Quanti abitanti ci sono qui?», chiede don Alejandro nella sala dell’oratorio del paesotto in provincia di Milano. «Quindicimila? In Siria sono morte duecentottantamila persone negli ultimi quattro anni». Così è solo un numero, scioccante, ma un numero. La domanda che don Alejandro Leon, parroco a Damasco, conficca nell’animo di chi ascolta è: «Perché vivere?». La domanda della sua gente. I giovani gli chiedono che senso ha studiare. Hanno visto i loro coetanei impegnarsi tanto, ogni giorno per anni e, poi, una bomba: in un secondo è finito tutto: «A che serve?». Chi di loro è ancora vivo sa che verrà chiamato per la leva obbligatoria: «Perché studiare se mi attende la morte?».
Don Alejandro è arrivato a Milano per un ritiro, e ha voluto ringraziare dell’amicizia nata nella preghiera con un gruppo di dipendenti delle multinazionali STMicroelectronics e Micron. Sono loro i primi a stupirsi di come si sia incrociato il destino di questo giovane sacerdote, classe 1980, nato in una famiglia della borghesia venezuelana e dalla vocazione precocissima (è entrato nei salesiani a 17 anni), con quello dei lavoratori di un polo aziendale fuori Milano, dove si fa ricerca industriale e produzione di dispositivi di microelettronica.
«In azienda la presenza della comunità del movimento è iniziata negli anni Novanta, cresciuta sino ad oggi», racconta Carmela, una di loro: «Abbiamo iniziato a trovarci, ogni venerdì, nell’aula delle rappresentanze sindacali, per fare insieme la Scuola di comunità, condividendo e giudicando insieme il lavoro e la vita, il day by day». Quaranta minuti in pausa pranzo, che non bastano mai perché gli interventi sono sempre tantissimi. Una storia bella e aperta di vita comunitaria in azienda, in cui i rapporti si sono consolidati (fino a far decider alcuni a fare la Fraternità insieme) e anche allargati a colleghi non del movimento. «È un porto di mare. I volti cambiano, anche per motivi di lavoro», continua Sara, «ma è un ritrovo che ha favorito una trama di amicizia. Spesso ci sono tesisti o neolaureati e la loro presenza è un rilancio continuo per chi è più adulto e “arrivato”».
Il 18 settembre 2014 questa comunità è colpita da un grande dolore. Uno di loro, Eugenio, non si presenta al lavoro. Quella stessa notte comincerà gli accertamenti fino alla diagnosi di un grave tumore al cervello. «Noi ci siamo subito mobilitati per un pellegrinaggio. Ma pochi giorni dopo, arriva una collega, Daniela: “So che voi di CL vi siete mossi per Eugenio, ma anche noi che abbiamo lavorato con lui vorremmo farlo. Perché non ci troviamo ogni giorno a pregare insieme?». Da lì, ogni giorno, decine di persone iniziano a trovarsi in una sala riunioni a pregare per lui. Credenti, miscredenti, atei. Anche stando in silenzio, ma volendo esserci. Nel tempo, il percorso terapeutico di Eugenio si definisce e dopo tre mesi a dire ogni giorno una decina del Rosario, sorge la domanda se continuare o meno. «C’era chi chiedeva di non smettere, perché sentiva importante quel momento e una dimensione comunitaria nuova sul lavoro».
In quel periodo, Emanuele, un altro collega, propone agli altri di continuare il momento di memoria quotidiano, perché si è reso conto che «è un privilegio poter professare liberamente la propria fede al lavoro, in un momento storico in cui ci sono cristiani che la testimoniano con la vita». E, proprio quando nella loro preghiera quotidiana si insinua la presenza dei cristiani perseguitati, Sara partecipa ad un incontro con un giornalista siriano. «Gli ho chiesto che cosa possiamo fare per la gente di là e lui mi ha detto: “È la vostra preghiera che ci sostiene. Magari non generica. Ma per persone precise, che si sentano sostenute da altre persone con nomi e cognomi”. Ci siamo scambiati le mail e il giorno dopo gli ho scritto: va bene, io e miei amici lo vogliamo, ma come?».
Per un mese, silenzio. Poi un mattino, arriva una mail. È tale don Alejandro di Damasco, che racconta nel dettaglio le giornate della sua comunità. «Quando ho visto quella mail, io mi sono sentita preferita», interviene Carmela. «Mi sembrava arrivasse da un altro mondo, a superare qualunque mia immagine o interrogativo sull’efficacia della nostra presenza cristiana al lavoro. Quella novità che stava discretamente entrando mi dava davvero la percezione fisica dell’unità della Chiesa: l’abbraccio tra due corpi. Loro, che sono in trincea, sono la manifestazione più sofferente di Gesù, una condizione di Chiesa che per noi è difficile da immaginare. E mi sono sentita amata nel poter entrare in contatto con loro». Al momento di preghiera, leggono tutti insieme il racconto di don Alejandro: i momenti di calma con il catechismo, la preparazione del Natale, la festa di don Bosco, poi i missili, la paura, e ancora la bellezza dei ragazzi e dei loro genitori, la Quaresima, la caritativa, la fuga di tanti, senza niente, a piedi nudi… Quella vita prendeva corpo nella sala aziendale davanti ai loro occhi. È iniziata una corrispondenza e non si sono più lasciati. Un gemellaggio di preghiera tra due comunità.
«È bastato dire “sì” ai suggerimenti chiari delle circostanze, cioè alla realtà», dice Sara, «e tutto il resto è stato un centuplo». Alcuni mesi dopo, don Alejandro arriva a Milano, portando in dono del sapone di Aleppo e dei dolcetti. Organizzano un incontro pubblico a Concorezzo, in cui il salesiano offre la sua testimonianza. «Noi siamo coccolati». Parla di sé e della sua gente di Damasco, mentre pensa alle condizioni dei fratelli che invece vivono ad Aleppo: «Loro hanno una sola ora di corrente ogni due giorni. A noi manca la benzina, ma ad Aleppo manca l’acqua. A noi manca il pane, ad Aleppo mancano pane, zucchero, farina. Ci sentiamo graziati dal Signore». Quello che distrugge è un’altra cosa: «La mancanza di libertà».
Lui è arrivato in missione a Damasco quattro anni fa e subito dopo è scoppiata la guerra. Duecentottantamila sono i morti. Ma poi ci sono i feriti, gli orfani, i profughi. La mattina ci si saluta prima di uscire: «Guarda, sono vestito così», perché spesso è l’unico modo per riconoscere i corpi. «C’è la coscienza profonda che ogni giorno è dono», dice, e poi aggiunge: «Io non so come, io non capisco, ma Dio riesce a sfruttare queste situazioni per far fiorire il deserto». Un giorno hanno rapito tre giovani cristiani del suo Centro. Sono tornati, per miracolo. Di solito non succede. «Al quarto giorno di sequestro, l’unico uomo di guardia appoggia il fucile sul tavolo, si vede che è stanco. Uno dei ragazzi, un animatore dell’oratorio che ci aiuta con i bambini, senza pensarci, gli chiede: “Ti fa male la schiena?”. L’uomo fa cenno di sì. E lui, con semplicità, si offre di fargli un massaggio. Il terrorista gli chiede cosa gli sia saltato in mente, visto che li ha rapiti e sta pensando se farli fuori. “Sono cristiano”, gli risponde il giovane: “Noi cristiani siamo fatti così. Quando possiamo far del bene lo facciamo. Ce lo ha insegnato Gesù”».
Ormai per le strade di Damasco non vede più bambini, è raro. Per questo, una sera, ha notato tre fratellini che cercavano del cibo tra la spazzatura. «Mi sono fermato e li ho portati a mangiare un kebab. Nel negozio, ho ordinato tre panini. Il più grande deve aver pensato che fossero due per me e uno per loro. Quando ha capito che per me non avevo preso nulla, mi ha dato metà del suo panino. Se un bambino affamato è capace di un gesto così vuol dire che c’è ancora un’umanità che va custodita». Dal pubblico gli chiedono se si sia pentito di essere andato lì. «Non voglio sottrarmi al volere del mio Signore e il mio Signore è morto in croce. So che la volontà di Dio non è la guerra, quella è la volontà degli uomini. Ma so anche che la volontà di Dio è che in ogni situazione io mi comporti da figlio che è amato». Dice di rimanere per tre ragioni: «Credo che Dio mi voglia lì. Poi, come salesiano quella è la mia famiglia e se li abbandonassi non riuscirei a dormire la notte. Infine, penso che Dio abbia messo un seme in Siria e che questo seme possa fiorire». Dice che possono togliergli «i soldi, il cibo, gli amici. Ma la speranza, la fede non possono togliermele. La speranza non è ingenuità. Il martirio è un dono, non lo cerco, ma se dovesse arrivare io so che sarei uno in più, non uno in meno».
Per tutto il tempo, don Alejandro parla con familiarità di Gesù crocifisso e insieme è allegro e ironico. «Tutto mi aspettavo, fuorché questo», dice Emanuele: «Trovarmi davanti un uomo che infonde a noi speranza, forza, fede. E non viceversa. Mi ha sbattuto in faccia un interrogativo ruvido: io ci credo veramente che Cristo sia “la Via, la Verità e la Vita”?». Il fatto che cinque minuti di preghiera comunitaria al giorno, iniziata per la malattia di un amico, li abbia resi amici di una comunità cristiana a migliaia di chilometri di distanza, che sta vivendo nel nostro tempo quello che sperimentavano i primi cristiani, gli fa venire in mente solo una cosa: «Il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Cosa sono cinque minuti in una giornata? Non sono nulla, come quei cinque pani e due pesci che i discepoli hanno dato a Gesù. Anche noi, come loro, quello avevamo e quello abbiamo buttato sul tavolo… una miseria… eppure sono tornate indietro in avanzo dodici ceste piene».
Lillo è colpito perché tutto questo non è successo per magia, «ma è venuto fuori di nome in nome, da una storia. È una vita che non fai tu, ma che si impone». E Anna ripensa alla domanda che don Julián Carrón aveva fatto sul Corriere della Sera dopo l’attentato a Charlie Hebdo: crediamo ancora nel fascino vincente della fede, della sua bellezza disarmata? «Guardare don Alejandro negli occhi è una risposta che non lascia dubbi. È la presenza di Cristo che rende capaci di una capacità di letizia che da solo l’uomo non avrebbe». In mezzo alle violenze, le privazioni, la disumanità che i nostri fratelli siriani vivono, Daniela è colpita «dalla determinazione a non fare un passo indietro, a non arretrare di un millimetro nella propria umanità. Ho visto che esiste davvero la possibilità per l’uomo di scegliere se chiudere gli occhi o stare dritto davanti alla realtà, con l’offerta senza fronzoli della nostra vita, nei modi e nei tempi che la vita ci chiede».
Don Alejandro racconta anche dell’«altra guerra», la disinformazione: «Quello siriano non è un conflitto civile. Il Governo combatte contro un esercito composto da persone di 86 Stati diversi». Non vuole parlare di politica, ma chiede di non lasciare tranquilli i potenti e i nostri Governi occidentali, di informare con verità. E ripete: «Il dono più prezioso che potete farci è la preghiera. Ma oltre a questo vi chiederei di fare un video. È importante per noi vedervi e sapere di non essere stati dimenticati». Alla fine dell’incontro, la gratitudine è palpabile. «È quella gratitudine di quando sei corrisposto», dice Carmela, «perché accade ciò che attendi: l’opera di un Altro».
Fonte: Tracce.it