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Il killer che le vittime osano chiamare “signore”

Ha fracassato una famiglia, ne ha trovato due pronte a tendergli la mano: la sua e quella della vittima. Pasqualino Folletto porta un nome che sarebbe più spontaneo abbinare alla trama di una fiaba per bambini che all’ardita bestialità di un gesto da orco: quarantacinque coltellate per ammazzare una giovane donna, pure madre, colpevole d’essere nel posto giusto al momento sbagliato. L’attimo della follia, quello che fa di un padre qualunque un killer efferato. La storia è una somma di attimi: quando il tempo ci opprime, talvolta è un secondo a salvarci. Un secondo a condannarci. E’ il miracolo e il dramma dell’attimo: essere, vedere, firmare un gesto. Come nell’attimo in cui si scatta una foto.

Una luce d’imbarazzo illumina le macerie. Una voce: «Aiuteremo la figlia malata dell’uomo che ha ucciso la nostra». La voce di un uomo, padre pure lui: il padre della donna accoltellata. Sono parole che sanno d’imbarazzo, di stupore, d’imbarazzante ardire: “Tu mi hai tolto una figlia, io m’impegnerò per aiutare la tua”. Dietro quell’assassino, infatti, c’è tutta una storia: il male non ne esce giustificato, semplicemente si getta uno squarcio di luce su quell’attimo. Illumina quell’intertempo che potrebbe fare di un instante un attimo di salvezza o di perdizione. Con i corpi ancora caldi e trivellati, sovente ci siamo abituati a sgomitare con l’eterna blasfemia: “Signora, perdona gli assassini di suo figlio? Di suo marito?” Qui, invece, c’è dell’altro: non è la scelta tra misericordia e giustizia, tra condanna e redenzione, tra malvagità e perdono. C’è un di più, un qualcosa che stona e intona allo stesso tempo, che incupisce e affascina, che strattona e consola. Quasi un saper leggere la storia e il mondo da una prospettiva diversa, con una visione dall’alto, con un vertice d’umanità che diventa in un battibaleno una vertigine di verità. Di discrezione: «D’ora in avanti, quello che accadrà tra la nostra famiglia e la moglie e le figlie del signore arrestato, resterà solo una questione nostra, e della nostra coscienza». Come può un padre – al quale hanno ammazzato una figlia in una maniera così barbara – ostinarsi a definire signore («signore arrestato») l’assassino senza passare per ironico o pazzo? La signorilità è ben altra cosa: è questione di stile, di charme, di portamento. Di nobiltà, di fascino e di galanteria. Come abbinare la signorilità con l’efferatezza senza fare dell’inutile sarcasmo?
E’ la legge delle origini: «Il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto» (Gen 4) è la traccia di riflessione che il Creatore porge a Caino agli inizi della sua gelosia verso il fratello Abele, appena prima dell’omicidio. Il male è talmente banale che non propone mai nulla di nuovo nel suo mostrarsi agli umani: nell’attimo del crimine l’uomo somiglia sempre a se stesso, un impasto di angelo e di bestialità. A stonare, dunque, non è la comprensione del male – che è assai diversa dalla giustificazione del male – bensì quel richiamo alla signorilità nell’attimo esatto in cui tutto si potrebbe pronunciare eccetto la parola signore. Invece qualcuno la pronuncia, ed è l’azzardo di tutta questa faccenda. Mettendo a questa parola la maiuscola iniziale risulta l’appellativo Signore, un nome al quale i cristiani non hanno ancora trovato un degno sostituto. Uno stile, essere signore, che diventa un nome proprio: il Signore. Non può essere solo una buona dose di oppio per dei cuori in preda alla disperazione; non può nemmeno essere un vago sentimentalismo cristiano. Qui sembra esserci in gioco un modo diverso d’essere uomini. Uno stile che infastidisce e che si vorrebbe tenere a freno. La strada, invece, è fatale come la freccia: ma nelle crepe sta in agguato Dio. Coi suoi misteri insondabili, nascosti, incomprensibili. Così imbarazzanti d’apparire ridicoli.
Eppur così palesi da non poterli oscurare.

Fonte: SullaStradaDiEmmaus.it

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