Il cimitero delle Porte Sante, a Firenze, è proprio a fianco all’abbazia di San Miniato al Monte, anche se magari i turisti che affollano piazzale Michelangelo neppure se ne accorgono. Da qui, per spostarsi in centro, si può passare per il quartiere di San Niccolò, attraversare il ponte alle Grazie e in un attimo ci si ritrova a Santa Croce. L’urne de’ forti, Foscolo, i Sepolcri, le glorie fiorentine di cui tutti, bene o male, conservano un ricordo. Ma anche alle Porte Sante i monumenti per i morti illustri non mancano, da Collodi a Giovanni Papini, dal
grand gourmand Pellegrino Artusi allo scultore Pietro Annigoni. Era il cimitero prediletto dalla buona borghesia fra Otto e Novecento e a certificarlo provvedono i tempietti dal gusto esotico, le molte lapidi di inglesi trasferiti sul Lungarno. Ogni tanto si incontra la tomba di un bambino, di solito allestita nel gusto un po’ morboso dell’epoca: tentacoli che ghermiscono la creatura, angioletti che si coprono il volto sconsolati.
Secondo padre Bernardo Francesco Maria, il giovane priore del monastero olivetano di San Miniato, sarebbe stata la scenografia perfetta per un video dei Baustelle. «Mi aveva colpito il testo di una loro canzone, “Monumentale” – racconta –. Non so se la conosce: “I cimiteri non danno pensieri, i camposanti non hanno rimpianti”. Li ho invitati a venire a girare da noi, ma loro hanno deciso altrimenti». Il rock e la morte, ma non nel senso di Jim Morrison o degli altri artisti maledetti. La musica e la vita, piuttosto. Quella di chi rimane, quella di chi se è ne andato troppo presto.
Dal Duemila, per iniziativa dell’amministrazione comunale, le Porte Sante è il cimitero dei giovani. Vittime di incidenti o di malattie implacabili, vengono sepolti sulla collina, come sarebbe piaciuto a Edgar Lee Masters, l’autore dell’Antologia di Spoon River.
«E questo – aggiunge padre Bernardo – ha comportato un ripensamento anche per noi monaci. La Regola di san Benedetto ci impone la stabilitas, che è fedeltà al luogo in cui viviamo. Ma questa fedeltà non è mai statica, perché ogni luogo non è altro che una profezia della Terra Promessa. Questa consapevolezza ci porta a prestare attenzione alle realtà che incontriamo ed esige da parte nostra la capacità di rispondere ai bisogni che la quotidianità presenta».
Nella fattispecie, tutto è cominciato con la famosa indecisione sulle cose da mettere via. A manifestarla era Loredana Recami, che tutti chiamano Lori. Suo figlio Tommaso è morto nel 2004, a 23 anni. Lei, credente da sempre, si è trovata a misurarsi con uno strazio mai immaginato prima. «Ogni fibra di te urla e si ribella – dice –. Gli altri ripetono che ti capiscono, ma tu senti che non è vero. Un dolore come questo non si riesce a comprenderlo, a impedirlo c’è una specie di barriera protettiva. Solo chi sta provando la stessa sofferenza può riuscire a condividerla».
Tra i vialetti delle Porte Sante, dove Tommaso è sepolto, Lori incontra un’altra madre, che ha perso la figlia da tempo. Si dimostra serena, potrebbe essere la persona giusta con la quale confidarsi. Si parte con la cameretta da riordinare e si continua parlando di tutto, inzialmente in un bar, in compagnia di qualche altra madre che si unisce spontaneamente. L’associazione viene fondata nel 2009 e prende il nome della “Stanza Accanto”, la poesia in cui Charles Péguy annuncia che «la morte non è niente». Uno se ne va di là, dietro la porta, ma non esce veramente di casa: «Parlatemi come mi avete sempre parlato, non usate un tono diverso. Io non sono lontano, sono solo sull’altro
lato del cammino».
Gli incontri, nel frattempo, si svolgono con regolarità a San Miniato, nei locali dell’abbazia. Ancora adesso l’appuntamento resta fissato al terzo sabato del mese. Partecipa anche padre Bernardo, ma la sua è una presenza silenziosa, di ascolto. «In generale – aggiunge il priore – la testimonianza dei monaci è l’esito del nostro esserci, non del nostro fare. Per questo cerchiamo, anche al di fuori dell’associazione, di mettere a disposizione delle famiglie una nuova grammatica
del lutto, nella quale rivestono molta importanza gli elementi simbolici e liturgici. Da principio sono gesti essenziali, di comprensione immediata, più avanti si può arrivare all’Eucarestia. Ma sono percorsi personali, direi quasi segreti. Da parte nostra non c’è alcuna forzatura, nessuna volontà di proselitismo».
Della “Stanza Accanto” fanno parte, in questo momento, una trentina di coppie. «Di solito le prime ad affacciarsi sono le madri – spiega Lori –, i padri ci mettono più tempo. Se possibile, gli uomini fanno ancora più fatica ad accettare la perdita, forse perché per loro la morte di un figlio è avvertita, sia pure in modo inconscio, come una specie di sconfitta genetica, come l’incapacità di perpetuarsi. All’esterno, invece, l’atteggiamento maschile resta più raziocinante, meno propenso all’espressione dei sentimenti rispetto a quello femminile». Qualcuno è ancora arrabbiato con Dio, ma l’esperienza della condivisione rappresenta comunque un’occasione di rinascita. «È come se i genitori diventassero i figli dei loro figli», riassume padre Bernardo. Loredana Recami è ancora più esplicita: «All’inizio ci si accontenterebbe di sopravvivere, ma si capisce presto che non sarebbe abbastanza. Allora qualcosa cambia, radicalmente. Quello che oggi vogliamo fare è vivere in pienezza la vita che i nostri figli ci hanno donato. Non è più quella di prima, questo è innegabile, eppure può essere addirittura più ricca. Lo dico con esitazione, oltre che con convinzione: dal punto di vista spirituale può essere una vita migliore».
Padre Bernardo non si stupisce. Fin dall’epoca degli eremiti del deserto, i monaci hanno avuto dimestichezza con cimiteri e sepolture. «Avere la morte sotto gli occhi e desiderare la vita eterna sono precetti di sempre – osserva –, più difficili da praticare nel mondo di oggi, per il quale il desiderio è diventata una nozione opaca e confusa». Per fare chiarezza i genitori della “Stanza Accanto” accarezzano da qualche tempo l’idea di una statua da collocare a San Miniato in memoria non solo dei loro figli, ma di tutti i ragazzi morti prematuramente. In attesa di realizzare questo progetto, ogni anno affidano a un fotografo l’allestimento di un calendario che restituisca almeno in parte la complessità e la profondità della loro vicenda. Nel 2015, per esempio, Mariangela Montanari si è soffermata sui bambini in visita a San Miniato al Monte, con una serie di istantanee sospese tra il gioco e il mistero. Mese per mese scorrono i nomi dei figli morti, distribuiti secondo la data del compleanno. Perché questo è il punto: si nasce una volta, per sempre, e la morte – davvero – non è niente.