Indissolubilità del matrimono e celibato ecclesiastico: due leggi diverse?
— 3 Agosto 2015 — pubblicato da Redazione. —Perché la Chiesa concede ad un sacerdote di lasciare l’abito e sposarsi mentre considera il matrimonio come indissolubile? Risponde padre Francesco Romano, docente di Diritto canonico alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.
La Chiesa non concede che, se un matrimonio è valido, possa essere sciolto. Anche la persona che viene abbandonata dal marito o dalla moglie non può risposarsi o mettere su una nuova famiglia: se lo fa viene esclusa dai sacramenti. Eppure la Chiesa è più indulgente con i sacerdoti, che in certi casi possono venire dispensati dal celibato e sposarsi. Non si potrebbe avere la stessa indulgenza verso chi può aver compiuto scelte che si rivelano sbagliate e che possono costringere una persona alla solitudine per tutta la vita? Anche perché il confessore dovrebbe esercitare il perdono di Dio: e mi rimane difficile pensare che di fronte a una donna che, dopo un matrimonio fallito, ha trovato un nuovo compagno con cui magari ha dei figli, Dio gli chieda, per essere in Comunione con Lui, di lasciare questa nuova famiglia per restare fedele al primo marito che l’ha abbandonata.
Lettera firmata
Più volte in questa rubrica i lettori hanno mostrato interesse per il sacramento del matrimonio, ma in particolare per le conseguenze del fallimento della vita coniugale, soprattutto in relazione a eventuali scelte successive fatte dai coniugi, come nel caso presentato dal nostro lettore. La questione deve trovare la possibilità di una risposta soprattutto avendo come fonti di conoscenza la Sacra Scrittura e l’insegnamento del Magistero della Chiesa.
Il matrimonio celebrato tra battezzati e l’ordine sacro hanno in comune di essere un sacramento la cui istituzione è di origine divina. La conseguenza più immediata è l’intangibilità degli elementi strutturali voluti da Dio. Su alcuni di essi la Chiesa non si è fermata ad esercitarne staticamente la custodia, ma da sempre ha cercato di approfondire gli aspetti dottrinali senza oltrepassare i limiti segnati da Dio.
Il sacramento dell’ordine non è incompatibile per istituzione divina con il sacramento del matrimonio. La legge del celibato è di origine ecclesiastica. Il can. 290 distingue tra valida ordinazione, che come tale non può mai essere annullata, e lo stato clericale che il chierico può arrivare perdere. Tuttavia, la dispensa dalla legge del celibato è un atto specifico di competenza esclusiva del Romano Pontefice (can. 291). Anche l’uomo già sposato, tranne che sia destinato al diaconato permanente, è considerato «impedito» a ricevere l’ordine (can. 1042 n. 1°), ma nulla toglie che l’autore di questa legge, cioè il Papa, possa dispensarlo e ammetterlo alla sacra ordinazione (can. 1047 §2, n. 3°), anche se questa possibilità non trova attuazione nella pratica.
Il matrimonio è di istituzione divina nei suoi elementi strutturali essenziali. Esso è stato elevato alla dignità di sacramento dal Signore Gesù, se celebrato tra due persone battezzate (can. 1055 §2). Dell’indissolubilità del vincolo ne parla la Bibbia già nelle prime pagine del Libro della Genesi, ma lo riafferma in maniera più forte il Signore richiamando il divieto divino «l’uomo non separi quel che Dio ha congiunto» (Mt 19, 6). In San Paolo l’immagine dell’unione sponsale irrevocabile tra Cristo e la Chiesa è riflessa nel vincolo del sacramento del matrimonio (Ef 4, 32).
Il concetto di indissolubilità necessita di qualche piccolo chiarimento. L’indissolubilità del legame che sorge da un matrimonio valido si dice «intrinseca» in riferimento ai coniugi in quanto non hanno alcun potere di scioglierlo, mentre si dice «estrinseca» l’indissolubilità del vincolo valido che non può essere sciolto neppure dall’autorità umana, sia religiosa che civile.
All’indissolubilità estrinseca viene associata un’ulteriore classificazione per cui parliamo di indissolubilità estrinseca «relativa» per riferirci al matrimonio solamente «rato» cioè sacramento, in quanto celebrato tra due persone battezzate, qualora non sia stato ancora consumato, e anche a quei matrimoni che non sono un sacramento, cioè celebrati tra persone di cui sia battezzata una sola di esse (can. 1142), anche se vi sia stata consumazione.
Si parla di indissolubilità estrinseca «assoluta» soltanto in riferimento al matrimonio «rato» e «consumato». In questo caso il matrimonio «non può essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte» (can. 1141). La consumazione realizza la stabilità del vincolo sacramentale, essendo a essa ordinato per sua natura, e la pienezza dell’immagine sponsale che porta a essere «una sola carne» (can. 1061 §1).
Fatte queste premesse, si conclude che nessuno può decidere da se stesso o in accordo con il coniuge lo scioglimento del vincolo del proprio matrimonio (indissolubilità «intrinseca»). Riguardo all’indissolubilità «estrinseca», quando essa sia «assoluta», come nel caso del matrimonio rato e consumato, nessuna potestà umana e per nessuna causa può sciogliere il valido vincolo sacramentale, eccetto la morte (can. 1141). Al di fuori di questo specifico caso, il vincolo valido che sorge da un matrimonio tra due persone battezzate oppure tra una persona battezzata e una non battezzata, indipendentemente dalla consumazione, è «estrinsecamente» indissolubile, ma in modo «relativo», cioè per «giusta causa» solo il Romano Pontefice può concedere la dispensa in virtù della sua potestà vicaria (cann. 1142; 1698 §2). Va sottolineato che la Chiesa si limita a esercitare la sua competenza sul matrimonio dei cattolici, anche se una sola delle parti sia cattolica (can. 1059). Pertanto, lo scioglimento del vincolo «relativamente» indissolubile non è una dichiarazione di nullità, ma una grazia e, trattandosi di un procedimento amministrativo di carattere discrezionale, con i nuovi Accordi stipulati fra la Santa Sede e la Repubblica Italiana il 18 febbraio 1983, non produce più l’esecutività degli effetti sul piano civile dell’indulto pontificio, cioè non è soggetto a delibazione.
Riconducendo queste riflessioni alla domanda del lettore, si può notare senza difficoltà che il sacramento dell’ordine nella sua istituzione divina non include tra gli elementi strutturali essenziali il celibato ecclesiastico che corrisponde a una legge meramente ecclesiastica in vigore nella Chiesa Cattolica di rito latino. Senza entrare in ulteriori distinzioni e differenziazioni all’interno dell’ordine sacro tra diaconato e presbiterato, e tra Chiesa di rito orientale sia cattolica che ortodossa, la concessione della dispensa dal celibato, preceduta dalla dimissione dallo stato clericale, non significa che tolleri la coesistenza di due stati di vita oppure due scelte di vita tra loro contrarie, dovute a un ripensamento. Significa invece che in questo caso con la dispensa la Chiesa concede quello che è in suo potere di fare, se ve ne sono i presupposti.
Al contrario, il sacramento del matrimonio, oltre a essere sacramento permanente, qualora il vincolo sia indissolubile in modo «assoluto», come per il matrimonio rato e consumato, nessuna autorità umana, neppure il Papa può scioglierlo. Resta la possibilità dello scioglimento del matrimonio «per giusta causa» qualora il vincolo sia indissolubile, ma in modo «relativo», come nei casi sopra elencati. Purtroppo, questa modalità di scioglimento, quando ve ne siano i presupposti, non trova interesse da parte dei coniugi per il mancato riconoscimento da parte dello Stato.
Pio XII in un discorso tenuto presso l’Università di Vienna il 3 giugno 1956, circa il limite del potere di dispensa del Papa ai matrimoni rati e non consumati, ebbe a dire che la Chiesa «se si comporta così non è per insensibilità o eccessivo rigore giuridico, come se non avvertisse le tragedie che spesso si verificano nei casi concreti, ma semplicemente per restare fedele al diritto matrimoniale segnato nei suoi limiti dal suo stesso Fondatore e che la Chiesa non può oltrepassare».
Tuttavia, di fronte alle situazioni complesse presentate dal lettore, sappiamo che nell’ambito della teologia e del diritto matrimoniale quanto non rientri in definizioni di carattere dogmatico e irreformabile resta aperto all’approfondimento da non dover escludere in assoluto che la Chiesa possa ulteriormente determinare, per esempio, il binomio dei concetti di sacramentalità e di consumazione fino a riconoscere al Romano Pontefice una potestà più ampia. Così si espresse la Commissione Teologica Internazionale nel documento del 6 dicembre 1977 sul matrimonio cristiano.
A dimostrazione di quanto abbiamo appena detto, come esempio possiamo richiamare all’attenzione l’evoluzione della dottrina sul matrimonio «super rato» e non consumato che è stata molto travagliata e ha attraversato tutto il primo millennio prendendo spunto dall’episodio evangelico in cui Cristo chiama a sé l’apostolo Giovanni che, secondo la tradizione comune, aveva già contratto le nozze, ma non le aveva ancora consumate. La teoria sulla potestà pontificia della dispensa «super rato» muove concretamente i primi passi con Alessandro III, tocca l’apice con Enrico da Susa, detto l’Ostiense, e viene portata avanti dai canonisti del XIV e XV secolo, trovando un po’ alla volta in ambito teologico le prime adesioni da parte di Enrico da Gand, di Sant’Antonino da Firenze, di Giovanni da Torquemada. Altre adesioni più determinate furono quelle di Duns Scoto e di Tommaso de Vio, detto il «Caietanus». Il Concilio di Trento confermerà la potestà pontificia della dispensa sul matrimonio rato e non consumato che entrerà con forza di legge nel Codex del 1917 e del 1983. Bisogna ricordare anche che fino al Codex del 1917 (can. 1119) l’ingresso in religione di uno dei due coniugi, con decisione presa anche soltanto in modo unilaterale, determinava lo scioglimento ipso iure del vincolo rato e non consumato, permettendo al coniuge rimasto nel secolo di contrarre nuove nozze. Questo ci consente di dire sulla base della storia del pensiero teologico e giuridico, che nella Chiesa l’evoluzione della conoscenza e della prassi si muove nella linea dell’approfondimento e non della contraddizione.
Come ultima osservazione non possiamo non fare riferimento alla recente riflessione di Papa Francesco nell’udienza dello scorso 24 giugno circa la separazione dei coniugi nei casi in cui essa non solo è inevitabile, ma anche moralmente necessaria. L’istituto giuridico della separazione canonica, anche se è poco conosciuto, era già codificato nel Codex del 1917 (cann. 1128-1132) e riaffermato nel vigente Codex (cann. 1151-1155) che non tralascia di sollecitare il coniuge innocente al perdono per quanto gli sia possibile. Va detto però con chiarezza che la separazione canonica include e salvaguarda la permanenza del vincolo, e che per questo non può essere confusa come un primo passo che legittimi il progressivo passaggio verso le nuove nozze. Il Papa riportando alla memoria l’esistenza dell’istituto della separazione canonica ha voluto sottolineare che il valido vincolo matrimoniale deve essere preservato nonostante il fallimento della convivenza coniugale ed altre eventuali scelte di vita poste in essere dai coniugi separati.
Fonte: toscanaoggi.it