Macchine per abbracci
— 20 Agosto 2015 — pubblicato da Redazione. —La tenacia combattiva con cui descrivono e difendono la propria diversità. È quanto hanno in comune i protagonisti di due recenti pubblicazioni che raccontando avventure umane intense e sorprendenti, raccontano anche, in parte, l’autismo. Ugualmente forte è il messaggio che le loro storie trasmettono, benché per il resto, Temple Grandin, scienziata famosa in tutto il mondo, e Carlo Ceci Ginistrelli, giovane studente di scienze religiose, siano lontani anni luce.
Sulla vita di Grandin, nata a Boston nel 1947, è stato girato un film e sono stati scritti vari libri, anche in prima persona. Siate gentili con le mucche (Trieste, Editoriale parla a voce alta, senza espressione», sia portata per la sua materia. Un giorno Temple osserva un gruppo di mucche che attendono in fila di essere vaccinate: dapprima scontente e nervose, si calmano all’istante quando vengono fatte entrare in un sistema di contenimento in grado di bloccarle. Infilandosi poco dopo in quella specie di gabbia, la piccola scienziata capisce prima di tutto di avere molte caratteristiche in comune con gli animali e costruisce la sua prima «strizzatrice» o «macchina degli abbracci», una specie di grande scatola portatile che lei stessa “indossa” quando si sente a disagio. I suoi studi universitari e post universitari andranno tutti in questa direzione: migliorare, grazie alle proprie invenzioni, le condizioni in cui gli animali vivono e muoiono. Grandin diventa un’esperta del comportamento di bovini, cavalli e maiali e negli anni Settanta, lei — donna, scienziata, autistica — frequenta abitualmente i rodei dell’Arizona, sino a mettere a punto la sua «scala per il paradiso»: una sofisticata apparecchiatura che conduce le mucche al macello senza che soffrano. Oggi un terzo del bestiame degli Stati Uniti vive e muore in strutture progettate da Temple Grandin, docente associato alla Colorado University e voce autorevole sulle tematiche connesse all’autismo. E le mucche vengono trattate con molta più gentilezza, secondo una lezione che «in un andirivieni di pensiero » tra gli uomini e gli animali, la scienziata non si è mai stancata di ripetere. Anche la storia di Carlo Ceci Ginistrelli raccontata in prima persona nel volume I pensieri non detti (Andria, EtEt edizioni, 2014, pagine 77, euro 8), è essenzialmente la storia di una scommessa vinta. Imbrigliato in un corpo che non comanda, il protagonista, nato ad Andria nel 1993, combatte sin da piccolo su due fronti: il fiume tumultuoso che, incontrollabile, scorre dentro di lui e l’offensiva stupidità di larga parte del mondo esterno. Nel terzo millennio, lo spettro dell’autismo, sebbene non più oscuro come ai tempi di Temple, è ancora ugualmente tenuto a distanza, vittima anch’esso, come tutte le diversità, di una mostruosa tendenza all’omologazione e di una diffusa ignoranza. Tre termini, frequenti nel libro e ricchi di sfumature, rendono con grande efficacia la determinazione con cui l’autore affronta la propria battaglia. «Osare» prima di tutto. Carlo non parla, ma usando il computer per scrivere, osa dire la propria opinione, osa prendere buoni, ottimi, voti, osa denunciare la negazione dei diritti cui troppo spesso assiste, soprattutto a scuola. Lo studio per lui è una passione, laddove invece le sue mani «sono indipendenti dal cervello», restie a farsi com a n d a re . Il secondo termine è «dosare», termine che, nel caso di Carlo, comporta sacrifici enormi. Dosare l’ansia, le energie, le emozioni. I primi tentativi di correggere alcune stereotipie, scatenano in lui una forte ribellione: «Perché — si chiede il protagonista — mi vogliono socialmente adeguato?». In seguito, però, prevale il desiderio di prendere il meglio che la vita può offrire e grazie a tecniche comportamentali all’avanguardia, al termine di un lunghissimo faticoso percorso, Carlo smette di strappare continuamente pezzi di carta, conquista un pensiero più lineare e lo scorso novembre riesce ad affrontare persino la «follia» di un’udienza papale: bus, fila, folle, rumori, «tutto invadeva il mio essere», ha raccontato Carlo in rete, ma «il premio finale» — il suo sguardo che incrocia quello di Francesco — è stato «una gioia che mi accompagnerà a lungo». L’ultimo termine è «meritare», che significa sia avere il diritto — allo studio, al rispetto, all’ascolto — sia essere ripagati del lavoro fatto in squadra con gli affetti più cari. Commoventi le pagine dedicate alla madre che lo ha amato senza paura — «autrice dei mie progressi, saggia, determinata, poco incline a ozi dissoluti, rigorosa ma piena di serenità» — e al padre maestro di vita silenzioso che più lentamente ha preso confidenza con le necessità di Carlo e che ancora oggi, quando è l’ora di fare la barba, si lascia prendere dall’ansia di ferirlo, un’ansia che è cura amorevole, condivisione profonda e gioia di esserci.
Fonte: Cristiano Cattolico.it
Approfondimenti: Papa Francesco | Odysseo.it