INSIDE OUT, l’emozione non è tutto
— 24 Settembre 2015 — pubblicato da Redazione. —E’ attraente e seduttivo Inside Out, il nuovo bellissimo film della Pixar, così capace di suscitare un unanime entusiasmo che ne parlano tutti. Toccando sapientemente le corde giuste sa infatti commuovere e divertire, ammicca ai grandi e ai piccini con riferimenti studiati per i diversi target di età. La vicenda che fa da sfondo è ormai nota: Riley, felice undicenne del Minnesota, si trova a fronteggiare il disagio di un trasferimento a San Francisco legato alle vicende lavorative di suo padre. Ma chi sono i veri protagonisti del film? Ce lo chiediamo perché se apparentemente si tratta di Riley e della sua famiglia, in realtà le vere protagoniste sono le cinque emozioni che letteralmente si agitano nella sua testa: Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto.
Possiamo a questo punto decidere se lasciarci emozionare (appunto) dal film e farci ammaliare dalla sua godibilità oppure se fermarci un attimo a chiederci che idea di bambino, e di uomo, vi è sottesa. Perché se ci pensiamo bene, ci affezioniamo solo alle emozioni di Riley che nella loro accentuazione ed esasperazione sanno suscitare in noi un affetto contrario alla loro natura: Gioia alla lunga annoia con il suo entusiasmo ostinato, Tristezza fa tenerezza, Paura fa ridere, Rabbia diverte e Disgusto attira con la sua ironia e il suo sarcasmo. Il punto è qui: ci affezioniamo a loro, non a Riley. La bambina è infatti inesistente così ridotta a poco più di un cyborg, una macchina certo perfettamente funzionante, ma pur sempre una macchina. Un involucro, carino e dolce, ma ultimamente incomprensibile dall’esterno, da quell’Out così distinto dall’Inside. Le emozioni non sono altro che puri dispositivi di comando che le fanno adottare un comportamento piuttosto che un altro, la manovrano come un videogioco con il joystick.
Non c’è pensiero in questa infanzia, e nemmeno in questa umanità. Tanto è vero che cani e gatti, nei godibilissimi titoli di coda, sono descritti muoversi secondo gli stessi identici meccanismi. Quindi emozioni-istinti che regolano il moto degli esseri animati, indistintamente. Ecco l’errore dei creativi della Pixar, che non fanno altro che registrare e amplificare un’idea diffusissima nel nostro mondo: ritenere che le emozioni siano forze e non forme. Le emozioni non sono elementi autonomi che tirano la giacca dei nostri comportamenti, ma sono le forme che assumono i nostri pensieri. È proprio il pensiero il grande assente di questo film e la sua assenza segna la sconfitta dell’infanzia. Il bambino che si arrabbia, che gioisce, che ha paura, che si rattrista e che scarta qualcosa lo fa sempre perché ha pensato. In Inside Out i pensieri sono rappresentati correre su un treno, nessuno sa dove viene e dove va, soprattutto è un treno che di notte si ferma.
Ma cosa sarebbero i sogni se non proprio il nostro pensiero che, restiamo pure nella metafora del treno, viaggia libero di notte, per andare dove vuole e costruire immagini magari bizzarre, ma sempre sensate? Questa concezione dell’infanzia, così spensierata, non rende giustizia ai bambini e apre la porta alla questione della gestione delle emozioni, al loro equilibrio reciproco: delle forze così potenti, e soprattutto così capaci di vita propria, devono necessariamente essere controllate e incanalate. Della rabbia ci sarà pertanto solo il problema della sua gestione, della strategia per contenerla, non l’analisi del perché è venuta e che cosa l’ha suscitata. Viene in questo modo escluso anche il giudizio, quella potente attività del pensiero che individua cosa è accaduto, se ne fa un’idea e permette di concludere. Povera Riley, è condannata a essere una bambina senza pace, perché la pace ha a che fare con il pensierogiudizio e la conclusione. Godiamoci pure il film, ma non guardiamo, anzi non pensiamo così i nostri bambini. Sarebbe davvero una riduzione. Loro, e noi, siamo molto di più di un fascio di pure emozioni. (Luigi Ballerini)
La difesa. Un’indagine sui sentimenti tra Paltone e i miti di oggi. Tempesta emotiva passata, allarme rientrato. E poi ormai Riley ha compiuto dodici anni: «Che altro può succedere?», si domanda Gioia, come al solito ottimista. Ma niente, tutt’al più la pubertà, l’adolescenza, sciocchezze di questo genere. Siamo alle ultime battute di Inside Out, i bambini pensano che la storia sia ormai finita, gli adulti sanno bene che è appena cominciata. Perché quello che il film descrive non è in effetti un meccanismo, bensì un processo: il passaggio dalle emozioni elementari dell’infanzia a una gamma più articolata di sentimenti, dove nessuna sensazione sarà più disgiunta dal suo opposto. L’ha capito anche Gioia, sia pure a fatica. Fino a quando si è ostinata a volere che le giornate di Riley restassero luminose e perfette come sempre erano state, non ha fatto altro che combinare disastri. Non appena Gioia ha accettato di collaborare con Tristezza, ecco che la bambina ha ritrovato se stessa. Anzi, no: ha scoperto un’altra se stessa, si è resa conto che crescere è cambiare, e cambiare in meglio. Come altri capolavori Pixar, prima fra tutti la trilogia di Toy Story, anche Inside Out è un racconto di formazione, sia pure mascherato sotto le mitologie spicciole della nostra tarda modernità. La tecnologia anzitutto, che presta al film la metafora centrale della cabina di controllo da cui agiscono le emozioni. Basta poco, però, per accorgersi che la dinamica è la stessa di un mythos in ogni senso classico. Ricordate l’auriga nel Fedro di Platone? La biga trainata da due cavalli, quello nero rappresenta l’attrazione per il mondo sensibile, quello bianco è l’aspirazione all’iperuranio, sede delle idee incorrotte. A tenere le redini è la mente o, meglio, l’anima razionale.
Ora, accusare Inside Out di ridurre la nostra interiorità a un susseguirsi di comandi su una console da videogioco equivarrebbe a sostenere che Platone si occupasse troppo di maniscalchi e finimenti. Il cartoon della Pixar rivendica semmai la convinzione opposta: proprio per evitare che le emozioni prendano il sopravvento, è necessario che le emozioni vengano educate. Parliamo di educazione, termine non esattamente amato dall’industria dell’intrattenimento globale, ma che da sempre riveste un ruolo centrale nella straordinaria vicenda creativa e imprenditoriale della Pixar. Fateci caso. I bambini dei film realizzati da John Lasseter e dalla sua allegra combriccola sono davvero bambini: la deliziosa Boo di Monsters & Co., l’imbranatissimo Russell di Up e via elencando. Compresa Riley, certo, colta nella fase delicatissima in cui non si è più piccoli e non si è ancora grandi.
Rappresentazioni realistiche e affettuose, che nascono dalla semplice circostanza per cui alla Pixar lavorano padri e madri di famiglia. Le storie che raccontano sono sempre, in qualche modo, storie di casa. Lo conferma la dedica che appare quasi in sordina fra i titoli di coda di Inside Out, meravigliosamente contraddittoria nell’esprimere l’augurio – questo sì irrazionale – che figli e figlie “possano non cambiare mai”. Il film che abbiamo appena visto dimostra il contrario, e cioè che per crescere si cambia, appunto, e che per cambiare si rinuncia a qualcosa. Per esempio alla prepotente purezza delle emozioni, al posto della quale subentra una nuova, affascinante forma di intelligenza, basata sul negoziato continuo delle emozioni tra loro e delle emozioni stesse con il pensiero razionale. Una lezione che, con un’intuizione memorabile, la sceneggiatura affida al personaggio di Bing Bong, l’amico immaginario che ha accompagnato Riley per tanti anni. Nel momento del pericolo, questo essere fantomatico – parte elefante, parte gatto, parte zucchero filato – decide di sacrificarsi per la salvezza della ragazzina. La sua è una scelta nella quale ragione e sentimento sono ormai indistinguibili. Così si comporta l’amore, ma prima di imparare anche questo Riley dovrà crescere ancora un po’.