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La famiglia fuori dalla polarità pastorale-dottrina

Come primo contributo in vista dell’assemblea sinodale sulla famiglia anticipiamo le conclusioni del saggio di don Gilfredo Marengo, “Generare nell’amore. La missione della famiglia cristiana nell’insegnamento ecclesiale dal Vaticano II a oggi” (Cittadella Editrice, Assisi 2014, pp. 390, con Prefazione del cardinale Angelo Scola), che arriva in libreria in questi giorni

 

Guardare sinteticamente al cammino dell’insegnamento ecclesiale sull’amore, il matrimonio e la procreazione responsabile dalla fine degli anni ‘50 al presente permette di registrare che questi temi si sono progressivamente imposti come un termine di paragone forte del delicato ambito del rapporto chiesa-mondo.

La decisione di Papa Francesco di convocare due assemblee sinodali sulla famiglia per gli anni 2014 e 2015 ne ribadisce la centralità, soprattutto se si tiene conto della speciale insistenza sulla missione evangelizzatrice della chiesa, accompagnata da una forte istanza di apertura dialogica agli uomini del nostro tempo (EG 133).

Si è in presenza di un formidabile investimento di energie che da oltre cinquant’anni segna con tratti forti il profilo della comunità ecclesiale, mettendo in campo una quantità di soggetti, contributi,  energie intellettuali e pastorali di dimensioni non comuni.

A fronte di tutto questo, un bilancio elaborato secondo un computo ragionieristico di guadagni e perdite, dovrebbe a malincuore registrare che, a fronte della mole degli investimenti effettuati e delle energie impegnate, il saldo finale deve evidenziare purtroppo un segno negativo. La qualità della vita delle famiglie, la loro adesione ai profili antropologici ed etici che la chiesa insegna, ritenendoli necessari e universalmente condivisibili, certamente non è migliorata in questi decenni; anzi: al presente i segnali di crisi, i fattori di corruzione, gli equivoci anche su temi fino a qualche decennio fa sentiti come evidenti ed indiscutibili, sono davanti agli occhi di tutti.

Pur avvertendo che un tale metro di giudizio non è l’unico per valutare adeguatamente l’agire storico della comunità ecclesiale e la sua capacità di incidere nella società del proprio tempo, gli interrogativi che ne emergono non possono essere lasciati cadere.

È del tutto evidente che la chiesa nel suo intento di incontro dialogico col mondo non ne può predeterminare gli esiti, affidati al profilo drammatico della libertà di ogni uomo. Nel medesimo tempo l’unico capitale sul quale si può investire, l’annuncio e la testimonianza operosa nel mondo, non procede solamente come applicazione di una chiarezza dottrinale (EG 42), ma postula il riconoscimento di una convenienza umana difficilmente raggiungibile se il cristiano non si lascia sfidare dal compito del mostrare le ragioni della propria fede e della propria adesione al progetto di Dio, così come il Signore la rivela e la chiesa custodisce nella sua quotidiana possibilità di essere vissuta e praticata.

Si possono, allora, individuare almeno due nodi che attendono ancora di essere adeguatamente sciolti: la correlazione tra lo sviluppo degli insegnamenti su matrimonio e famiglia e il percorso recettivo del Vaticano II e il peso specifico della sua fisionomia pastorale, chiave di lettura del modo con il quale il concilio ha inteso riconsiderare il rapporto tra la chiesa e il mondo del suo tempo.

Le polemiche seguite a Humanae vitae ebbero un’eco che travalicò di molto i confini della vita ecclesiale, attirando una forte attenzione nell’opinione pubblica e nei mezzi di comunicazione, generando pregiudizi e ostilità: parve a molti osservatori che la chiesa avesse imboccato la strada di una forte distanza dalla sensibilità dell’uomo contemporaneo, chiudendo gli spazi del dialogo, pur insistentemente ricercato proprio come cifra distintiva del concilio.

Da questo punto di vista si sarebbe dovuto concludere che il modo con cui si andavano trattando i temi del matrimonio e della famiglia rischiava di essere un’occasione perduta proprio di un rinnovato rapporto col mondo. Difficile dissentire da una tale, dolorosa conclusione se si stringe l’inquadratura sul tenore di molta parte del dibattito seguito all’enciclica di Paolo VI. Una certa autoreferenzialità dottrinale ha favorito un’inversione di prospettiva: da punto nodale del dialogo col mondo la procreazione responsabile è stata collocata nello spazio di una discussione tutta ad intra tra addetti ai lavori, al più condizionata dalla misura di una maggiore o minore “apertura” alle istanze della società contemporanea, talvolta assunte in modo acritico ed ingenuo.

Le vicende del primo decennio post-conciliare – pesantemente influenzate anche dai dibattiti intorno a Humanae vitae – hanno favorito un significativo decentramento da queste prospettive basilari del Vaticano II, restringendo l’orizzonte ai confini di un virulento dibattito sulla dottrina, in specie quella morale: ne conseguì – probabilmente oltre l’intenzione dei suoi attori – la percezione di una rinnovata distanza tra la chiesa e gli uomini nel suo tempo.

Una via di uscita a questa impasse esige di riporre al centro dell’attenzione il modo con il quale il Vaticano II ha inteso il suo profilo pastorale come cifra sintetica del suo volgersi a un rinnovato incontro con il mondo e gli uomini del proprio tempo.

In questo difficile panorama si può meglio apprezzare il singolare investimento di energie su amore, matrimonio e famiglia, rappresentato dal pontificato di Giovanni Paolo II. Sarebbe miopia colpevole ridurlo a una semplice ripresa e ribadita conferma dei dettami dell’enciclica di Paolo VI, senza per questo voler sottostimare la forza e la chiarezza con la quale vengono confermati i suoi contenuti fondamentali.

Volendo fissare i tratti maggiori dell’eredità lasciata da questo papa si dovrebbe in primo luogo mettere al centro dell’attenzione il riconoscimento del posizione tutta speciale che l’esperienza dell’amore possiede nella vita di ogni uomo. Le ragioni di ciò vengono indicate attraverso uno speciale approfondimento della nozione di imago Dei, letta in chiave cristologica e trinitaria e capace di esprimere l’elemento unificante di tutte le dimensione dell’umano. L’amore nuziale e la vita della famiglia sono presentati come l’obiettivo ambito di verifica di questi fattori costitutivi dell’esistenza umana e il sacramento del matrimonio, inteso come partecipazione per grazia alla relazione sponsale tra Cristo e la Chiesa, si manifesta come la condizione di possibilità di questa verifica. In questo percorso la libertà di ciascuno è chiamata (vocazione) a mettersi in gioco con tutta se stessa, secondo un profilo di responsabilità per cui la forma compiuta dell’amore sponsale (dono di sé) contiene in se stessa le ragioni e le modalità adeguate del suo esprimersi.

La certezza che «l’uomo non può vivere senza amore» (RH 10) è il fattore in grado di favorire il riconoscimento della pertinenza universale di questo insegnamento, mentre il suo radicamento in una lettura cristocentrica dei racconti genesiaci della creazione fa sì che non si perda mai il senso della singolare novità della rivelazione cristiana. Il papa ha colto nell’esperienza dell’amore umano l’emergenza più acuta e drammatica dell’uomo del nostro tempo: di conseguenza questo è l’ambito ove la chiesa è sollecitata in maniera tutta speciale a dare testimonianza della speranza che porta in sé.

È importante ritenere come egli abbia ricondotto la questione chiesa-mondo a quella del rapporto tra Cristo ed ogni uomo storicamente esistente. Emerge la costante preoccupazione di manifestare la novità e la capacità inclusiva della figura di Gesù Cristo nei confronti della totalità dell’esperienza umana, così come essa si dà nel qui ed ora nella storia del mondo.

 

Alla luce di queste considerazioni si deve segnalare quanto il magistero di Giovanni Paolo II abbia avuto a cuore  farsi carico del profilo pastorale del concilio come tratto forte di un rinnovato incontro della chiesa con il mondo e gli uomini del proprio tempo, in piena connessione con l’affermazione della singolare pretesa salvifica dell’evento di Gesù Cristo. Esso è stato in grado di collocarsi fuori dalle strettoie di una schematica assunzione della polarità dottrina-pastorale. Infatti nelle sue parole e nei suoi gesti la volontà di raggiungere ed abbracciare ogni frammento di umanità non comporta in nessun modo alcun mutamento circa i fondamentali del patrimonio dottrinale della chiesa. La capacità della vita cristiana di dialogare e farsi prossima all’esistenza di ogni uomo non dipende infatti, ideologicamente, da un “adattamento” del contenuto della rivelazione, ma piuttosto da quel singolare dinamismo di certezza della fede e libertà di cui è intrecciata la vita cristiana quando esperimenta che nel mistero di Gesù Cristo si rivela pienamente l’uomo all’uomo. Si colloca in questo ambito la possibilità di verificare tutta la novità pastorale del Vaticano II, nell’attenta ricerca di uno stile e un linguaggio ecclesiale capace di testimoniare con efficacia l’opera salvifica di Cristo nel mondo odierno.

In buona continuità a questo percorso si presenta il contributo offerto da Benedetto XVI, soprattutto per lo speciale accento posto sul tema della testimonianza cristiana della caritas e una forte consapevolezza delle nuove sfide presenti nella complessa vicenda del rapporto chiesa-mondo.

Il mondo contemporaneo in questi cinquant’anni è profondamente mutato. Nella sua complessità, spesso tragica, esso non sembra avere recepito la volontà dialogica dei cristiani, anzi pare muoversi in direzioni che accentuano il suo profilo di distanza, quando non di esplicita conflittualità con il sentire cristiano. Non mancano accenti di aperta ostilità e, soprattutto, di intolleranza ogni qual volta la chiesa si ponga fuori dai confini di uno stucchevole politically correct e non abbia paura di ricordare la singolare pretesa salvifica del Suo Signore.

Non è azzardato ritenere che l’insieme di questi elementi abbia favorito il diffondersi, spesso con successo, di forti spunti di polemica “anti-moderna” in taluni settori ecclesiali. Non è raro rintracciare l’auspicio che – come nel passato – si  privilegi soprattutto una rigorosa, e dottrinalmente ineccepibile, presa di distanza dagli errori del mondo; a essa dovrebbe seguire una serie (altrettanto rigorosa) di indicazioni operative ed etiche allo scopo di preservare il popolo dei fedeli da ogni contaminazione mondana, per custodirli in una pratica di vita moralmente virtuosa.

Non va dimenticato che l’esigenza di mostrare la ragionevolezza dell’annuncio cristiano sull’uomo, il matrimonio e la famiglia a un mondo non solo secolarizzato, ma che sembra aver perduto la memoria stessa del fatto cristiano, può avere favorire un certo sbilanciamento delle argomentazioni alla ricerca di nuovi (o forse antichi) preambula fidei, intesi come un terreno comune d’incontro con l’uomo laico del presente, lasciando sullo sfondo la già ricordata urgenza di recuperare lo specifico dell’antropologia e dell’etica cristiane. In specie molto si è insistito sulle categorie di “ragione” e “natura”, non cogliendo forse quanto la loro comprensione nella mentalità e nella cultura contemporanea sia molto distante dal patrimonio tradizionale del pensiero cristiano. Per questo motivo l’appello a convenire in uno spazio comune di razionalità naturale può correre il rischio di mancare l’interlocutore: per paradosso nello stesso punto di avvio di un’istanza di dialogo si pongono le premesse per sancire in qualche modo l’impossibilità della sua esecuzione.

Queste difficoltà sono state alla base di una certa ripresa in taluni ambienti ecclesiali di un atteggiamento di condanna senza appello nei confronti del mondo, da cui il Vaticano II aveva inteso congedarsi senza riserve. A fronte di queste posizioni non convincenti la centralità del tema il dialogo tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo, ripresa con forza da papa Francesco, ripone al cuore della pastorale ecclesiale una divisa forte, in buona continuità con tutti i suoi ultimi precedessori, da Paolo VI a Benedetto XVI.

Alla luce di questi dati appare del tutto incongruo che l’interesse di qualche osservatore sia fissi sulla possibilità o meno di mutamenti nella dottrina. Confrontarsi con la proposta sinodale in questi termini svela di nuovo il desueto errore di prospettiva che si può enunciare con questa domanda: ogni eventuale novità pastorale comporta necessariamente un cambiamento della dottrina? Il profilo equivoco di questa problematica è stato ampiamente documentato a proposito di Humanae vitae. Al presente non si vede quale utilità possa avere, se non quella di creare sterili occasioni di polemica e, soprattutto, di introdurre inutili elementi di complicazioni nell’esame di temi e problemi tanto urgenti e drammatici, quanto di non facile trattazione.

È interessante ricordare che questo profilo del dibattito si presentò identico proprio durante il Sinodo del 1980. Già in quell’occasione si confrontarono due posizioni: una riteneva si dovesse  superare una mera ripetizione della dottrina allo scopo di collocare i lavori del Sinodo nel percorso tracciato dalla categoria conciliare dei «segni dei tempi», con speciale attenzione al vissuto delle comunità cristiane (sensus fidelium). A essa si opponevano quanti insistevano su una ferma proclamazione della dottrina ecclesiale che evitasse ogni cedimento alla mentalità del mondo, privilegiando un forte profilo identitario, garanzia della missione purificatrice e salvifica della chiesa rispetto alla realtà del matrimonio e della famiglia, duramente messa in crisi nella società contemporanea. In quel contesto l’allora cardinale J. Ratzinger indicò un punto di riconciliazione in una forte istanza pedagogica che tenesse insieme tanto l’attenzione al vissuto e alle difficoltà dei fedeli quanto la preoccupazione di non ridurre in nessun modo l’integralità della proposta cristiana: questa fu la direzione intrapresa da Familiaris corsortio e dal magistero di Giovanni Paolo II.

La cura per il Vangelo della famiglia ha segnato in maniera singolare il cammino della chiesa degli ultimi cinquant’anni.

Nel ripercorrere un cammino iniziato alla vigilia del concilio si riscopre la singolare novità di quell’evento e quanto tutta la sua ricchezza attenda di essere pienamente assunta nel tessuto vivo della comunità ecclesiale: è suggestivo che il cammino sinodale voluto da Papa Francesco si concluderà proprio nel cinquantesimo di Gaudium et spes (2015).

Il non facile cammino seguito al Vaticano II, cifra indelebile dell’ultimo mezzo secolo di vita della chiesa, consegna al presente delle comunità cristiane la sfida della nuova evangelizzazione. Essa rinnova ed approfondisce le istanze di rinnovamento e impeto missionario dalle quali prese avvio il lungo percorso conciliare: nel suo procedere l’invito ad «amare l’amore umano» – singolarmente riecheggiato da Giovanni Paolo II – conserva tutto il suo fascino e la promessa di frutti fecondi per un’operosa testimonianza tra gli uomini del nostro tempo.

*  Don Gilfredo Marengo è docente stabile di Antropologia teologica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia

Fonte: VaticanInsider.it

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