Il dramma dei padri separati. Poveri e soli
— 13 Ottobre 2015 — pubblicato da Redazione. —Mentre da tempo la Chiesa – come emerge con chiarezza anche dal Sinodo in corso – riflette sulle modalità più opportune per risultare più accogliente nei confronti delle persone separate e divorziate, per le istituzioni pubbliche l’aspetto della prevenzione fa parte evidentemente del politicamente scorretto.
Ma qualche segnale di risveglio e di attenzione da parte della società civile e dell’associazionismo per fortuna non manca. Lo dimostra la prima ricerca realizzata grazie alla collaborazione diretta delle associazioni di separati. L’ha promossa l’Istituto di antropologia per la cultura della persona e della famiglia, in collaborazione con l’Associazione famiglie separate cristiane e il Centro di Ateneo ricerche sulla famiglia dell’Università Cattolica di Milano.
Il dossier, concluso prima dell’estate, è condensato adesso in un libro (vedi box a fianco) che affianca ai dati del sondaggio, dieci interviste a madri e padri separati. I risultati della ricerca permettono di offrire uno spaccato inedito del pianeta separazione. Tra i tanti spunti viene confermato, per esempio, che la separazione è sempre e comunque l’anticamera della precarietà e spesso di una povertà autentica, che apre la strada a una vita comunque più difficile, che porta a un isolamento crescente, che conduce a una situazione esistenziale più fragile. Dalla ricerca emerge una realtà filmata in presa diretta, con tutto il peso di situazioni quasi insostenibili, all’interno di una cornice in cui parlare di emergenza sembra quasi un eufemismo.
Difficile descrivere in modo diverso, tra tanti altri dati, la situazione di autentica povertà in cui versano i padri separati. Un terzo di loro (30,6%), pagato l’assegno di mantenimento, dichiara di poter contare su un reddito residuo mensile che va dai 300 al 700 euro. Il 17% dai 100 ai 300 euro al giorno per sprofondare in una sopravvivenza da clochard, se non ci fossero le reti Caritas e degli altri enti assistenziali per soddisfare, almeno in parte, i bisogni più immediati.
Ma confermato, pur con cifre che nessuno immaginava così drammatiche, l’assioma separazione-povertà, la ricerca – a cui hanno collaborato circa 30 associazioni di separati – presenta anche sorprendenti smentite. Non è affatto vero per esempio che la convivenza di prova sia una garanzia per la durata della relazione, secondo una certa interpretazione di etica libertaria che punta il dito contro il vincolo matrimoniale come laccio che imprigiona e spegne la fantasia. Anzi, tra coloro che si separano il 14,6% di coppie ha alle spalle una convivenza. Tra costoro la rottura della relazione avviene dopo quattro anni. C’è poi un 12,6% che arriva da un matrimonio civile. In questo caso la separazione si verifica dopo sette anni. Si registrano addirittura separazioni (2,4%) tra i cosiddetti “Lat” (living apart togheter), coloro cioè che convivono e spesso hanno figli, pur abitando in case diverse.
Il maggior numero di separazioni (70,4) viene segnalato dopo un matrimonio religioso, ma il dato va letto in relazione al numero assoluto di nozze all’altare che – almeno fino a un decennio fa – rappresentava la schiacciante maggioranza del totale. In ogni caso i matrimoni religiosi sono quelli di maggiore durata. Chi si separa, lo fa in media solo dopo nove anni. Dati che devono comunque far riflettere sull’assenza di interventi legislativi mirati. Per esempio la mediazione familiare, finalizzata non tanto ad assestare il colpo di grazia al rapporto coniugale in tempi quanto più rapidi possibile, ma a verificare invece le possibilità di ricostruirlo. La ricerca conferma tra l’altro che non esistono tentativi di conciliazione da parte del giudice. La durata media delle udienze? Quindici minuti, ad indicare, come sottolineato dalla maggior parte degli intervistati, che quando si arriva in tribunale “i giochi sono già fatti”.
Per quanto riguarda il rapporto con i figli le esperienze di padri e di madri sono diametralmente opposte. Mentre il 72,7% delle donne separate vede tutti i giorni i propri figli, questa possibilità è riservata solo al 9.2% degli uomini. C’è un 14,2% di padri che racconta di riuscirci solo “più volte al mese” e addirittura un 13,9% che ammette con sconforto che “non ho mai visto i miei figli nell’ultimo anno”. Punto culminante di una povertà relazionale che rende la vita dei padri separati decisamente peggiore rispetto a quella delle donne. Evidente come, in questo vuoto di rapporti, l’appartenenza associativa sia spesso l’unico approdo per tanti padri separati, che nella condivisione delle esperienze, cercano soprattutto risposte di tipo informativo, mentre le madri chiedono di socializzare e di scambiare esperienze, anche di fede.
La “militanza” risulta in ogni caso cruciale per tutti gli intervistati. Capacità di mediazione, accoglienza e mutuo-aiuto sono elementi che, conclude la ricerca, «permettono di affinare la consapevolezza di sé e di sviluppare un atteggiamento di fiducia e di speranza nella realtà sociale e nei propri scopi di vita». Almeno per quella sempre più esigua percentuale di padri separati che riesce a tirare avanti fino alla fine del mese.