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Sapevi che il bambino prima di nascere “parla” con la mamma?

È una prova solida per poter affermare che un embrione ai primi stadi non è un agglomerato di cellule, ma un essere vivo della nostra specie.

Un tema fondamentale della bioetica è lo statuto biologico dell’embrione umano, perché dimostrare che quest’ultimo è un essere biologico della nostra specie e non un agglomerato informe di cellule è fondamentale per affermare che qualsiasi tecnica che ne implichi la distruzione è inaccettabile dal punto di vista bioetico.

Un’argomentazione che viene usata per difendere questa tesi è il cosiddetto “dialogo tra l’embrione e sua madre”, ovvero la comunicazione che si stabilisce tra l’embrione e la mamma già dal suo passaggio per la tuba di Falloppio fino a quando non si impianta nell’utero materno.

Il fatto che l’embrione umano possa stabilire questo dialogo biologico con l’endometrio uterino, ovvero con sua madre, è una prova molto solida per poter affermare che questo embrione prematuro non è un agglomerato di cellule ma un essere vivo della nostra specie.

Dialogo materno-fetale

Ma in cosa consiste questo dialogo?

Durante il suo scivolamento attraverso la tuba di Falloppio e il suo impianto nell’endometrio materno, l’embrione produce e secerne una serie di composti biochimici, che agiscono sull’endometrio per facilitare il suo impianto. È come se si dicesse che l’embrione avvisa la madre del fatto che sta arrivando al luogo dell’annidamento nel suo utero perché questa si prepari, ovvero perché adegui il contesto in cui si impianterà suo figlio.

A sua volta, però, l’endometrio materno produce e secerne nel fluido endometriale in cui l’embrione è immerso altri composti, fondamentali per il suo impianto.

In questo dialogo materno-fetale si verifica anche un altro fatto biologico che sostiene la natura di essere vivo organizzato dell’embrione ai primi stadi: la diminuzione dell’attività immunologica della madre per favorire l’impianto di suo figlio.

L’embrione è infatti un ente biologico estraneo alla madre, perché la metà del suo contenuto genomico deriva dal padre, per cui potrebbe essere respinto, ma per evitare questa eventualità la madre riduce la propria attività immunologica.

Su Development è stato pubblicato di recente un articolo (142; 3210-3221, 2015) in cui si verifica che gli elementi inclusi nel fluido secreto dall’endometrio materno e che imbevono il figlio durante il suo processo di impianto possono modificare l’espressione genica del figlio.

Questo ha importanti conseguenze biomediche e bioetiche. Da punto di vista biomedico, questa interrelazione genetica potrebbe aumentare il rischio che il figlio possa soffrire di alcune malattie, come il diabete di tipo 2, o di condizioni biologiche che potrebbero incrementare il rischio di soffrire di patologie come l’obesità.

Questo rapporto tra madre e figlio si potrebbe però verificare anche nella fecondazione in vitro quando si utilizzano ovuli donati, ovvero non della madre, o quando si ricorre a quello che ormai viene chiamato “utero in affitto”. Nel primo caso, si potrebbe modificare l’espressione genica del genoma del figlio per l’influsso dei messaggi materni, ovvero si inserirebbero nel genoma del figlio informazioni provenienti dall’endometrio materno, per cui in qualche modo, in maniera molto parziale, arriverebbe a costituirsi un embrione modificato geneticamente dall’influsso della madre biologica.

Nel caso dell’utero in affitto, anche questo potrebbe influire sul genoma del figlio, ovvero si potrebbero stabilire legami biologici con il figlio che vanno ben al di là di quelli favoriti dalla gravidanza, per cui con la modifica da parte della madre dell’espressione del genoma del figlio si implementerebbe sostanzialmente il rapporto, il che potrebbe creare più problemi biologici e sociologici di quelli che queste pratiche comportano attualmente.

Fonte: Aleteia.org

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