Il perdono? «Spezza catene negative, che pesano sempre di più sulla nostra vita fino a spegnerne ogni luminosità». La confessione? «È un’opera di salvezza. Apre la strada alla verità, alla luce dello Spirito». La luce che è negli occhi di Antonella Lumini quando parla di queste cose, nella sua abitazione-eremo al centro di Firenze. Ha 63 anni, è laureata in filosofia e lavora part time nel settore dei libri antichi della Biblioteca Nazionale della città. A 28 anni, fidanzata e indirizzata verso la vita familiare, ha sentito dentro una voce sempre più insistente che la chiamava al silenzio. Per lungo tempo, senza capire, ha cercato la sua strada. Poi l’ha trovata nella solitudine di un appartamento. «Qui – spiega – la sete di silenzio mi ha portata all’ascolto di Dio. Poi l’ascolto di Dio mi sta portando sempre di più verso l’ascolto delle persone».
L’idea di eremo che ha maturato nel tempo, si è fatta sempre più vicina al concetto di pustinia, una parola russa che significa deserto (così come la parola greca dalla quale, appunto, deriva “eremo”), che nella tradizione orientale è il luogo dove ci si unisce a Dio nella solitudine, nel silenzio, nella preghiera e nel digiuno. Antonella Lumini, come l’eremita della pustinia, il pustinik, vive comunque al servizio della comunità e di chi in essa ha più bisogno. È autrice di Dio è Madre. L’altra faccia dell’amore (Intento, 2013) e di Memoria profonda e risveglio (LEF, 2008). Sulla sua esperienza di “eremita di città” a novembre dovrebbe uscire per Einaudi un libro scritto a quattro mani con Paolo Rodari: La custode del silenzio.
Perché lega il concetto di perdono a quello di Spirito?
«Perché il rancore ci spegne come una tenebra e dalla mia esperienza conosco che solo lo Spirito è capace di riaccendere la vita che si è spenta».
Il perdono apre le porte allo Spirito?
«Diciamo che se ci mettiamo nelle condizioni di attingere alla luce dello Spirito, l’anima si apre, si mette a nudo, diventa capace di conoscere le ombre che sono nel profondo e desidera purificarsi. Lo Spirito Santo è Spirito di verità, come dice Giovanni: è la vita nuova, la forza del Risorto che ci viene incontro».
E questo passa attraverso la confessione?
«Purché confessarsi non sia solo abitudinarietà. Purché confessarsi sia scavare nelle profondità di noi stessi, dove ci sono pesantezze che trasciniamo da anni, anche da generazioni. È lì che dobbiamo entrare quando ci confessiamo».
È come aprire la finestra in una stanza buia?
«È come divenire un canale in cui lo Spirito fluisce. Allora cominciamo a sentire la nostalgia della purezza. Ridiventiamo capaci di guardarci dentro, di capire quello che non va. Insomma, smettiamo di barare con noi stessi, facciamo verità dentro di noi. Ma da soli non si riesce».
Da soli no?
«Dio ci ricrea continuamente. Bisogna semplicemente aprirsi alla forza del suo amore. Ma in questo mondo, con i suoi meccanismi, con le sue dinamiche che ci travolgono, con i nostri egoismi, da soli non riusciamo a sentire questo desiderio, che ci apre e ci rende capaci di uscire alla luce. Non sentiamo la nostalgia che ci chiama verso quell’Amore che abita nell’intimo del cuore».
Vengono in mente le parole di Gesù a Marta: ti preoccupi per molte cose ma di una cosa solo c’è bisogno…
«Naturalmente le cose bisogna farle. Ma non dobbiamo essere sovrastati da esse. La realtà che ci prende intorno ci sbilancia e ci porta lontano dalla giusta misura, dalla nostra umana».
Dobbiamo guardarci dentro con più spirito critico?
«Il bisogno di guardarsi dentro deve scattare ogni volta che entriamo in crisi, che ci viene fatto un torto, che siamo travolti dal rancore. In tutti questi casi dobbiamo smettere di dare la colpa agli altri, perché se non troviamo la forza di scrutare in noi stessi non impareremo mai a guardare negli occhi la verità».
Se la confessione è così importante per la nostra felicità perché è così fuori moda?
«Prima si viveva in una tradizione giuridica e moraleggiante, che colpevolizzava troppo. Ora siamo passati all’eccesso opposto. Ma il senso del peccato è importante se viene vissuto come una sollecitazione a una crescita interiore. Il sacramento della riconciliazione innanzitutto ci pacifica con noi stessi, ci apre all’Amore di Dio che cambia la vita».
Il tema del Giubileo.
«Sì. La misericordia è l’aspetto materno di Dio. Il Giubileo è una grande opportunità per riconoscerlo, sperimentarlo. Il divino Amore ci viene incontro con la tenerezza di una madre per aiutarci a crescere, non per giudicarci. Il senso del peccato è riconoscere l’errore, accettare di farci correggere. Questo è il giusto angolo visuale che ci permette di progredire e di entrare in una relazione d’amore con Dio. Così il nostro errore diventa necessario alla crescita, alla vera maturazione umana. Per questo il Giubileo della Misericordia è un passaggio epocale: Dio non è un giudice, un guardiano che ci vuole limitare nei nostri desideri, ma è colui che ci aiuta a crescere, a realizzare la nostra umanità».
Il nostro, però, è un mondo che non insegna a riconoscere il proprio errore…
«E in cui manca il riconoscimento dell’autorità. In cui gli anziani vogliono fare i giovani e così i giovani non hanno più riferimenti. Un mondo in cui c’è bisogno urgente di autorevolezza. Dio Amore ha l’autorevolezza. Lo dicono i Vangeli: “Insegnava come uno che ha autorità, non come gli scribi…”. L’Amore dona autorevolezza. Per la Chiesa è fondamentale riscoprire l’autorità che scaturisce dall’amore. Se i giovani trovano nella Chiesa l’autorevolezza dell’Amore ne saranno irresistibilmente attratti. Sarà poi il contatto col soprannaturale a dare loro il senso del male, il gusto per la vera bellezza».
Saranno attratti anche dal confessionale?
«Se diventa il luogo dell’accoglienza in cui è possibile entrare dentro noi stessi, lì dove nasce il nostro dolore, lì dove vivono i nostri vizi, le forze che ci legano. La confessione richiede un sincero desiderio di scendere nel profondo, sia da parte di colui che si confessa che del confessore».
I sacerdoti devono far fiorire questo desiderio?
«Una volta si parlava di cura d’anime. Ora c’è lo psicologo, lo psicanalista. Professioni necessarie e importanti, ma non si può curare l’anima senza guardare verso lo Spirito. È lo Spirito che cura, che raddrizza ciò che è storto, che bagna ciò che è arido… Chi confessa deve insegnare a incontrare lo Spirito, fornendo gli strumenti. La Chiesa non è un istituto per la morale, la Chiesa è uno strumento di salvezza e deve insegnare a desiderare la salvezza, aiutare a conquistarla. Perché l’importante non è tanto condurre una vita morale, l’importante è essere salvati, partecipare della vita eterna».
Confessarsi per farsi curare dallo Spirito?
«Sì. E allora questa forza diventa attiva dentro di noi. Ci toglie dal buio. Ci apre alla luminosità dell’Amore e allora certe cose di cui prima neppure ci rendevamo conto (il peccato) non si possono più fare, non perché sono vietate, ma perché comprendiamo che sono sbagliate, che ci danno male. Non è la morale che si impone, ma lo Spirito che ci trasforma. La confessione è davvero un’opera di salvezza se ci rende consapevoli, coscienti, responsabili».