Ogni anno, in un giorno preciso del calendario, ciascuno di noi festeggia il proprio compleanno. Ed ogni anno, in un giorno preciso del calendario, ciascuno di noi, senza saperlo, vive il compleanno della propria futura morte. Sfiora inconsapevolmente quel giorno che tra uno, due, dieci o quarant’anni sarà esattamente il giorno in cui spireremo. Il primo compleanno ricorda una data passata, il secondo ricorda una data a venire, seppur incognita. Il primo celebra il dies natalis in terra, il secondo quello celeste. Nel primo facciamo memoria di quando abbiamo aperto per la prima volta gli occhi alla vita, nel secondo rammentiamo che un dì la morte ce li chiuderà per sempre per farceli riaprire su un’altra vita. Il primo esprime la gioia e la gratitudine di essere venuti al mondo, il secondo dovrebbe essere segno di speranza gioiosa di venire accolti nell’altro mondo, quello paradisiaco, una volta che ci siamo congedati da questo di mondo. E dunque come un giorno siamo venuti alla luce, così un giorno speriamo di venire abbracciati dalla Luce.
Entrambi i compleanni però si muovono sull’ascissa del tempo computando anno dopo anno un tragitto di vita che si fa via via più corto, mentre alle loro spalle gli anni si allungano. Il loro incedere e la loro meta sono dunque i medesimi.
La Commemorazione dei defunti è sicuramente e prima di tutto momento di preghiera e riflessione per chi non è più tra noi, ma è anche giorno in cui pensiamo noi stessi tra i più. E il monito medioevale “memento mori” potrebbe allora essere declinato nel dedicare un giorno del calendario proprio a questo compleanno “rovesciato”, alla previsione e preparazione di quel dies che segnerà il passaggio da vita a vita. Un anniversario predittivo, potremmo così chiamarlo, per poterci disporre al meglio a scrivere quell’omega incisa sulla nostra lapide così come Dio vuole.
Questo secondo compleanno, che non rievoca un qualcosa ma lo attende, ha delle sue peculiarità rispetto a quello usuale. Il genetliaco ordinario si incardina in un fatto, deciso da Dio e non da noi. Un fatto che è indiscutibilmente dono perché marca il passaggio dal non esistere all’esistere ed è l’inizio di una vocazione alla felicità eterna. Il genetliaco che guarda al futuro trova anch’esso la sua genesi in un fatto – la nostra morte – fatto che nella maggior parte dei casi non è da noi voluto, ma il suo significato potrà essere duplice. Di premio se saremmo stati vigili, di condanna se la morte ci ha trovato impreparati. Infatti il dono, se rifiutato, si perverte in pena.
La morte, alla fine, è punto privilegiato per osservare la vita, il luogo temporale migliore per mettere a fuoco la propria esistenza dal momento che tutta la nostra vicenda umana avrà senso solo se l’epilogo si concluderà in Dio. E se non abbiamo potuto prepararci a vivere, cioè a nascere, dobbiamo prepararci a morire, cioè a nascere in cielo evitando la seconda morte, l’inferno.
Il compleanno delle propria futura morte fa dunque prendere coscienza da una parte della polverosità del nostro esistere e dall’altra che questa polvere che noi siamo, mista allo spirito, può guadagnarsi la vita eterna. Lo sguardo alle lapidi dei nostri cari allora sottintende – ammettiamolo – uno sguardo all’ombra che proietta la nostra vita e che si accorcia sempre più. Non è fatalismo, pessimismo leopardiano, senso dell’ineluttabile, ma solo realismo cristiano che si apre alla speranza e desiderio di accumulare in Cielo un tesoro che non perisce, prima che la sabbia nella nostra piccola o grande clessidra sia esaurita.
Fonte: LaNuovaBQ