Compie trent’anni il concerto di Natale da Assisi, che Raiuno trasmette la mattina del 25 dicembre alle 12.30, portando il calore della musica e il richiamo dei valori nelle case di chi si appresta a festeggiare in famiglia. Tra gli affreschi di Cimabue e Giotto quest’anno si esibiscono il soprano russo Ekaterina Bakanova, la cantante israeliana Noa e la violinista “pop” americana Caroline Campbell. Le tre artiste sono accompagnate dall’Orchestra sinfonica nazionale della Rai diretta da Steven Mercurio, affiancata dal coro di voci bianche “I piccoli musici” e il coro “Coenobium vocale”. In platea, tra gli altri, il presidente del Pontificio consiglio della Cultura Gianfranco Ravasi, il presidente del Senato, Pietro Grasso. Se per Bakanova e Campbell è la prima volta nella basilica superiore di San Francesco, Noa è ormai quasi una veterana dei concerti assisiati: «È sempre un grande piacere per me venire ad Assisi e partecipare a questo concerto speciale – spiega la cantante ebrea –. Assisi è un bellissimo posto, la basilica è mozzafiato e sento una grande affinità con l’ordine francescano. Amo i valori che esso rappresenta: l’amore per tutti gli uomini, l’umiltà, la carità, la modestia, senza dimenticare l’amore per la natura e la pace».
Noa, che cosa ha scelto di cantare nel concerto di Natale, e perché?
«La prima canzone si intitola Look at the moon, ossia “guardare la luna” ed è dal mio ultimo album Love Medicine. Venti anni fa, io e Gil Dor (chitarrista e produttore di Noa, ndr) siamo stati i primi ebrei a essere invitati a esibirsi in Vaticano per papa Giovanni Paolo II. In seguito siamo stati invitati molte altre volte da questo grande uomo, e abbiamo accettato sempre con grande rispetto e gioia. Look at the moon è stata ispirata dalla storia della vita di Karol Wojtyla, molti anni prima che diventasse papa. Ho saputo che nella sua giovinezza si era innamorato di una ragazza ebrea. In questa canzone li immagino seduti insieme sotto la luna, chiedendosi l’un l’altra se questa conosca i loro nomi o la lingua delle loro preghiere… Essi sono certi che negli occhi della luna tutte le donne e gli uomini sono uguali, e che tutti sono nati dall’amore e per amare. La seconda canzone si chiama invece Child of man, “Figlio dell’uomo”. L’ho scritta anni fa e l’ho eseguita molte volte. Si tratta di una celebrazione gioiosa dell’umanità. Ho dedicato questa canzone a san Francesco, per il suo amore verso l’umanità e la natura e per la sua profonda compassione. Infine, ho canto una strofa di Silent night in inglese… ma ne ho tradotto una parte in ebraico, facendone una preghiera universale per la pace».
Che cosa è per lei, ebrea, il Natale?
«Il Natale è una festa di luce, di rinascita e di famiglia. Non festeggio il Natale, ma ho rispetto per i riti e le usanze di tutte le religioni, quando si basano sull’amore e la solidarietà. E poi mi piace molto anche la musica legata al Natale… ci sono molte bellissime canzoni!».
Quando e perché ha iniziato a cantare per la pace?
«Ho iniziato 20 anni fa, dopo l’assassinio di Yitzhak Rabin. Sentivo che se questo grande uomo aveva potuto sacrificare la sua vita per la pace, anch’io avrei potuto sacrificare un po’ del mio tempo e della mia popolarità per una causa così importante. Da allora ho fatto questo costantemente e in molti modi».
La sua famiglia ha origini yemenite. I suoi antenati, allontanati perché ebrei, hanno attraversato il deserto a piedi, proprio come oggi i rifugiati che scappano dalla guerra che sconvolge quel paese. Anche la sua musica è radicata in quella tradizione . Che luogo è lo Yemen per lei? «Non sono mai stata in Yemen. Non ci posso andare, perché gli ebrei non sono i benvenuti in questo paese musulmano. È un fatto per me molto doloroso. Sono triste nel vedere ciò che ne è dello Yemen, e prego per un futuro migliore per i suoi abitanti. So dello Yemen solo dai racconti dei più anziani della mia famiglia, e dalla musica, la danza, il cibo e la ricca cultura degli ebrei yemeniti che è stata conservata di generazione in generazione. Non solo. I miei geni yemeniti sono molto dominanti: il colore della mia pelle, il tono della mia voce, il movimento delle mie mani, il mio suonare le percussioni e, soprattutto, la mia passione ed energia, davvero tipica della mia gente».
Che significato hanno per lei, allora, parole come “radici” e “identità”?
«Imparare dal passato è interessante e molto importante, ma l’identità non dovrebbe mai essere causa di odio. Per come la vedo io, la grande differenza tra le filosofie di destra e di sinistra in Israele è l’identità: la destra è fanatica nel preservare la definizione più ristretta della sua identità, e non è disposta ad accettare qualcuno o qualcosa di diverso da coloro che è nel suo circolo chiuso, il suo “club” . La sinistra invece punta a espandere l’identità, per quanto possibile, e includere quante più persone possono. Questo approccio è anche chiamato umanesimo: la mia identità è la razza umana, così come la natura. Io non sono interessata a separarmi dagli altri. Lo sono, invece, a creare collegamenti e legami, ad agire con compassione e generosità, sentendo la solidarietà e l’empatia: a sentirmi un tutt’uno con tutti».