E, tuttavia, una Porta che ci interpella senza possibilità di terze vie: o è aperta o è chiusa. Lasciarla chiusa, ma anche trasformarla in un checkpoint sempre più selettivo (la Chiesa non è una dogana, ci ha ricordato papa Francesco in altra occasione) fa male a tutti. «Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l’emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire», ha ragionato Zygmunt Bauman. E poi respingere è solo rimuovere temporaneamente, o delegare ad altri. Anche perché chi è partito non ha più nulla: «Potete respingere, non riportare indietro/ è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata», ha scritto Erri de Luca in una sua bella ‘preghiera’ per i migranti.
Tenere le porte chiuse significa diventare attivamente non solo complici ma, di più, artefici della cultura dello scarto, che trasforma esseri umani fragili in disturbo da evitare, presenza indesiderata da respingere, numeri da archiviare, questioni che riguardano altri. Il loro arrivo interpella, invece, ciascuno di noi. La loro presenza provoca e smaschera. Mette a nudo le tante ipocrisie di questo tempo: quelle di chi si erge a paladino della vita e, poi, è per respingere chi fugge da situazioni di morte; o di chi difende la vita dei migranti, ma non quella dei nascituri. La cattiva coscienza di chi pensa che il rifugiato sia ‘di sinistra’ e l’embrione umano ‘di destra’, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare.
«Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono» ( Laudato si’ 120). Ipocrisia è pensare che si possa sbandierare la difesa di una fragilità mentre se ne sta calpestando un’altra. Perché tutto è connesso. Bussate e vi sarà aperto, dice il Vangelo. Ero straniero e mi avete accolto. Gesù, Maria e Giuseppe hanno sperimentato che cosa significhi lasciare la propria terra ed essere migranti, ha recentemente ricordato papa Francesco. E noi? Il Mediterraneo è ormai un ‘cimitero liquido’. La cullatomba di tanti sogni negati. «Ti ringrazio mare, perché ci hai accolto senza visto né passaporto», recita una poesia anonima che sta circolando in rete, tradotta dall’arabo. E continua con amarezza: «Vi ringrazio pesci, che dividete il mio corpo senza chiedermi di che religione io sia, o di quale partito».
La loro morte è la nostra morte, perché tutto è connesso. Ma questo grembo cupo può generare una nuova vita, e non solo per chi arriva disperato, ma anche, e soprattutto, per chi accoglie. Se il senso comune dice ‘Come possiamo aiutarli? Abbiamo già tanti problemi’, la gioiosa follia della Misericordia risponde: «Lasciamoci sorprendere da Dio. Lui non si stanca mai di spalancare la porta del suo cuore per ripetere che ci ama e vuole condividere con noi la sua vita» ( Misericordiae Vultus 25).
Dostoevskij ha scritto: «Io mi sento responsabile appena un uomo posa il suo sguardo su di me». Il tempo è ora. Di fronte a questo sguardo dobbiamo decidere per il sì o il no. Oggi. Risvegliamo le risorse di generosità che ormai non sappiamo più nemmeno di avere; lasciamoci contagiare dalla reciprocità generativa dell’accoglienza; abbiamo il coraggio di «itinerari che rinnovano e trasformano l’intera umanità», come ha scritto papa Francesco presentando il senso di questa giornata. Lasciamoci sorprendere da noi stessi, trasfigurati dall’amore, che bussa dal mare. Attraversando con loro, oggi, la Porta della Misericordia.