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Negare la norma significa negare la realtà

Il periodo storico e culturale che l’occidente sta vivendo è forse il più complesso, articolato ed all’un tempo contraddittorio di tutta la sua plurisecolare storia.

Tutto, rispetto a quanto fino ad ora è stato nel corso dei secoli, sembra ribaltato ed inafferrabile: l’idea di sovranità; la rappresentanza popolare; i rapporti economici; la struttura della famiglia; la sostanza e la funzione del diritto e così via.

Ciò che più di tutto, forse, può essere ritenuto fluido e in corso di assestamenti paradossali è appunto il concetto di norma verso cui una grande ambivalenza ha generato grandi paradossi.

Per un verso la norma viene esaltata come infallibile ed onnipotente, posta sopra ogni altra dimensione e resa indiscutibile: definendo tale approccio come deterministico, si pensi, per esempio, alla normatività delle scienze positive come la chimica o la fisica; chi oggi metterebbe in dubbio che la realtà fisica, cioè quella su cui si esplica l’efficacia inderogabile di una precisa legge, è regolata, normata, dalla forza di gravità?

Per altro verso, invece, nei confronti della norma si nutre insofferenza, repulsione, ritenendo che essa non sia (ri)conoscibile e che dunque non possa produrre effetti vincolanti: definendo tale approccio come scettico, si pensi, per esempio, al principio di non-contraddizione – vera e propria norma e regola del pensiero – che da parte di quasi tutti viene ignorato o deliberatamente disatteso.

A ben vedere, però, altri due movimenti paralleli si sono sviluppati al fianco delle predette visioni sulla norma: per il primo, che si potrebbe definire come alternatistico, vi sono casi in cui la norma naturale perderebbe la sua forza vincolante, pur essendo conosciuta e riconosciuta dalle scienze positive, per esempio, disconoscendo che per la biologia, ai fini della mera riproduzione, necessitano un elemento maschio e uno femmina; per il secondo, definibile antinormistico, invece, esisterebbe un’unica vera norma, cioè quella che obbliga a ritenere inesistenti le norme, le regole, costitutive della realtà.

Insomma, il pensiero alternatistico ha cioè una visione intermittente: vi sono leggi di natura e scientifiche che talvolta possono essere riconosciute e applicate, e talvolta invece no; per il pensiero antinormistico, invece, le norme e le regole non esistono per nulla e quindi né si possono riconoscere, né si possono o si devono applicare.

Da ciò discende, chiaramente, la inevitabile conseguenza per cui non solo non può essere più individuato ciò che è normale, cioè ciò che è disciplinato da una norma (per esempio il ragionamento disciplinato dal principio di non-contraddizione), ma che lo stesso concetto di normale – a sua volta normativo – deve essere sempre e comunque rifiutato e respinto.

Nasce così a livello sociale il pensiero dell’antinormalità, cioè quello fondato sull’idea che non esista la normalità, riflesso del pensiero filosofico dell’antinormatività, cioè quello fondato appunto sull’idea che non esista la norma.

A questo punto il pensiero dell’antinormalità però è già in contraddizione con se stesso, poiché esso stesso è diventato la norma, è diventato, suo malgrado, normativo. Due sono, dunque, le vie percorribili: o riconoscere la propria contraddizione costitutiva auto-dissolvendosi; oppure evolvere verso la gestione della propria stessa normatività acquisita, tramite la fase della cosiddetta normalizzazione, cioè del rendere tale contraddizione a sua volta normale e non rilevabile come tale.

In sostanza: l’antinormatività negando l’esistenza della norma fa venir meno l’idea del normale e diviene essa stessa la norma; riconoscendosi come tale esplica i propri effetti normativi e attraverso il procedimento di normalizzazione stira le pieghe della sua stessa contraddizione.

La contraddizione di una simile prospettiva, infatti, è insita nel suo assurgere a norma negando la norma; nel suo acquisire normatività in opposizione alla normatività; nel suo diventare normale rifiutando il normale.

All’oscuro di tali dinamiche, ovviamente, non ci si rende conto di tutti questi delicati passaggi; ma alla luce della loro esplicitazione, non possono che emergere chiaramente tutti i paradossi di una simile prospettiva.

È, del resto, uno dei frutti più maturi del post-moderno e nemmeno il più grave, essendo maggiormente increscioso che a molti sfugga una simile dinamica o che perfino la si voglia negare nonostante l’evidenza.

Tutto ciò, su cui ancora molto vi sarebbe da considerare e da riflettere, dimostra l’impossibilità logica e ontologica di negare la norma e la normatività, poiché l’antinormatività, essendo normatività-contro, contro la normatività, è pur sempre normatività.

Da qui l’inaccetabilità del pensiero antinormativo rispetto a quello normativo: mentre quest’ultimo, infatti, non solo riconosce come inderogabile per la realtà la presenza della norma, ma esplicita proprio l’essenza stessa della realtà rendendo palese che la norma è norma-per, per qualcosa, per la realtà, appunto; il pensiero antinormativo, invece, non solo si pone contro la norma, ma ponendo la realtà contro la norma e diventando esso stesso norma, norma-contro, anti-norma, cioè, in sostanza, non-norma, si pone irrimediabilmente contro la realtà stessa.

Parafrasando le riflessioni del filosofo Jean-Luc Marion sull’ateismo, si può e si deve ritenere, in conclusione, che l’antinormatività, in definitiva, non solo non riesce mai a negare nella sua essenza il concetto di norma, ma, paradossalmente, per poter escludere la norma stessa dall’esistenza, ne presuppone sempre una.

Fonte: Negare la norma significa negare la realtà | Tempi.it

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