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Gestazione: quei 1000 giorni «sacri» che ci fanno come siamo

L’Unicef ha recentemente lanciato un’importante azione internazionale: ‘L’iniziativa mille giorni d’oro’. Si tratta di sensibilizzare l’opinione pubblica e i governi sui mille giorni più importanti della nostra vita a riguardo delle cure, dell’affetto e della nutrizione, perché quello è il periodo che segnerà in maniera indelebile la nostra esistenza. Ma quali sono questi mille giorni decisivi? Quelli dal concepimento al compimento dei due anni: esattamente 1000 giorni. Maltrattare la vita fetale, quella embrionale, quella del neonato, quella del lattante è ugualmente pericoloso, ci spiegano gli esperti: ci segnerà per sempre, noi siamo il risultato di come siamo stati trattati in questi primi mille giorni. Tutte queste quattro epoche, dallo zigote fino all’acquisizione della parola, vengono dall’Unicef fatte assurgere ad alta dignità. Sappiamo bene, invece, come proprio questi mille giorni – da quando la vita inizia in poi – siano sottovalutati.

Non sembra possibile, ma accade anche per chi è già nato e rientra nei suddetti mille giorni. Per Stuart Derbishire, ad esempio, il lattante almeno fino a 12 mesi di età non sa esprimersi e dunque nemmeno sente il dolore come lo sente un adulto (cosa peraltro smentita dalla medicina e dalla fisiologia). Annie Janvier, neonatologa canadese, non cessa di scrivere libri e articoli per spiegare come il neonato possa essere trattato in maniera diversa, cioè con meno garanzie, per quel che riguarda le decisioni di fine-vita, e anche per quel che riguarda il diritto alla presenza dei genitori, alla analgesia, ad un ambiente ospedaliero salutare rispetto ad un bambino di dieci anni (cfr. Ethical Dilemmas for Critically Ill Babies, Springer, 2016). Figurarsi allora come vengono trattati il feto e l’embrione, che ricevono dignità solo quando la cronaca racconta tragiche storie di scambi di embrioni o di morti colpose fetali, e in questi casi i media parlano di «perdita di un bambino», mentre per ogni altro riferimento al periodo prenatale si sottolinea sempre che si parla di «progetto di vita». Eppure, la vita ha delle caratteristiche stupefacenti sin dalla sua alba prenatale. Basti pensare che dal concepimento comincia un dialogo tra madre e embrione fatto di messaggi ormonali perché il corpo della madre dia il lasciapassare al figlio, riconoscendo paradossalmente che è ‘un estraneo’ ma anche ‘un invitato’, e con un procedimento biochimico molto complicato non lo espelle dal suo corpo.

E questo dialogo continua nell’annidamento e nella crescita all’interno del corpo materno, fino all’evidenza della trasmissione all’interno del corpo della mamma di cellule e molecole fetali (con cui oggi si può fare anche diagnosi prenatale) che resteranno lì per anni, a memoria indelebile del passaggio del piccolo nel corpo materno, memoria incancellabile e talora anche terapeutica (sono cellule staminali che la madre assume ‘gratis’). La rivista Frontiers in Psychology di marzo riporta un interessante studio su come feti di 25 settimane in grembo sanno rispondere agli stimoli acustici della voce della mamma; e sappiamo ormai bene dalla letteratura scientifica come il feto una volta nato riconoscerà in una sorta di memoria gli stimoli acustici sentiti prima di nascere. Anni fa pubblicai sulla rivista Biology of the Neonate uno studio in cui si mostrava come i figli delle ballerine che avevano continuato a danzare durante la gravidanza chiedessero, per addormentarsi, di essere cullati in maniera più energica degli altri. E vari studi come quelli della texana Julie Minnella (che riportammo nel libro Sento Dunque Sono, Cantagalli) mostrano che addirittura i nostri gusti alimentari si formano già in gravidanza, perché il sapore dei quello che la madre mangia arriva, filtrato dalla placenta, nel liquido amniotico in cui il feto vive e, di qui, alla sua bocca.

Tutto questo mostra la bontà anche etica dell’iniziativa Unicef dei mille giorni d’oro, che mostra come l’epoca prenatale, in modo simile alle altre epoche dei nostri primi mille giorni di vita, non sia un’epoca di ‘umanità in potenza’, ma di umanità in atto, fondante e fondamentale. Anche perché gli stress e i maltrattamenti che subiamo nei nostri primi mille giorni sono addirittura capaci di alterare il modo in cui il nostro Dna si esprimerà per il resto della vita, portando ad alterazioni della soglia del dolore o a malattie cardiache. Dunque, il primo messaggio è chiaro: i mille giorni fondanti la nostra vita dovrebbero assurgere ad alta dignità e rispetto, non per motivi di principio ma per pure evidenze fisiologiche; e non si tratta di difendere ‘il feto’ come fosse un’entità a sé, quasi fosse un vezzo farlo, ma di difendere l’infanzia che inizia dal concepimento, dunque anche embrione e feto.

Il secondo messaggio è che se la mamma e il soggetto prenatale sono in scambio continuo di messaggi in modo indelebile (il feto ricorda la voce della mamma e la mamma porta in sé le cellule del figlio), come si può pensare di separare questa diade che ha impresso in sé l’una il segno dell’altro, che ha dato un imprinting reciproco imperituro? Eppure, sembra che oggi si possa decidere a tavolino di fare sviluppare un bimbo nel corpo di una donna per darlo ad altri soggetti appena nato, come se i nove mesi iniziali fossero ininfluenti, un sogno passeggero che all’alba scompare. Errore: per la mamma ‘portatrice’ il bambino non scomparirà mai anche se non lo vede più, e viceversa. Entrambi sono marcati l’uno dall’altra.

Anche a livello psicologico il feto marca con la sua presenza la psiche materna e risente delle emozioni della gestante tanto da restarne a sua volta marcato: vari studi mostrano gli effetti pericolosi per lo sviluppo mentale del bambino di una depressione materna durante la gravidanza. La gestazione modifica profondamente la psiche materna anche per vie ormonali; per esempio, tramite la produzione di ossitocina, l’ormone che determina l’attaccamento al feto. Che ne sarà di mamme colme fisiologicamente di un attaccamento che improvvisamente non trova più il suo oggetto di riferimento? O esse restano solo ‘uteri in affitto’, espressione oggettificante, che riduce la donna a un suo organo? Può accadere che per tragici motivi questa diade venga separata dalla morte, dalla guerra, dalla povertà, dalla disperazione; ma sono casi tragici che lasciano un segno che certamente altre famiglie cercheranno di compensare; talora la compensazione riesce, ma non è un risultato assicurato; e mettere a tavolino un bambino e una madre (non dimentichiamo la donna: i traumi delle depressioni post-partum o i rischi del cesareo) in condizioni di potenziale rischio sembra davvero paradossale. Mille giorni – dal concepimento in poi – fondano la nostra vita: sono mille giorni sacri; se non pensate che lo siano per motivi morali, sappiate almeno che sono mille giorni sacri per la medicina.

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