Milano, maggio. Questa domenica la casa è vuota, a parte noi due, il cane e i gatti. I figli, in giro: chi dalla fidanzata, chi a una gita, chi a una festa. È assolutamente giusto, mi dico, che a diciotto o vent’anni, e anche prima, vadano per la loro strada. E che angoscia sarebbe invece vederli chiusi in casa, da soli. In questo primo maggio invece sono tutti, felicemente, altrove.
Certo, la casa è grande, e senza di loro il lungo corridoio – quello in cui si rincorrevano gridando, da piccoli – è così silenzioso. La stanza dei due maschi, un po’ spoglia, con le maglie e le scarpe abbandonate a casaccio, come fanno loro. Quella della figlia, invece, dalla netta dolce impronta femminile. Ma entrambe vuote, con i gatti che indolenti mi fissano, dai cuscini di cui si sono appropriati.
Il soggiorno poi, con la tv spenta, e la cucina, troppo grande, senza le loro voci. A tavola, due soli piatti sono pochi. Faccio fatica a reggere questo silenzio. (Quando leggo del desiderio affannoso delle coppie che non riescono ad avere figli, io capisco bene il loro dolore e la loro domanda. Però, mi chiedo, lo sapranno che quel figlio che anelano non è una cosa che si possiede, e che già a sedici anni vorrà scegliersi gli amici, e poi la vita?).
In verità, la fine della loro adolescenza per me è come un partorire un’altra volta, un metterli definitivamente al mondo. Perché quando nascono li tieni fra le braccia, e puoi credere che siano tuoi; ma adesso, occorre lasciarli andare. Ed è più difficile, e più duro. La casa che colmavano con le loro grida e le Barbie, e il Lego in cui sempre si inciampava, mi sembra un guscio abbandonato. A volte portano a casa gli amici, e allora attorno al gran tavolo in cucina tornano voci e risate, e io dalla mia stanza ne respiro felice l’eco. Sono contenta persino di lavare i piatti delle spaghettate improvvisate. Mi accorgo che quando passo davanti a questi giovani ospiti c’è un istante di silenzio, come se comparisse uno straniero; e mi ricordo come anche per me era così, quando a casa delle amiche arrivava la mamma, e allora tutte si taceva un istante; essendo quella adulta gentile evidentemente altra da noi, diciottenni. Mi pare, a dire la verità, passato così poco, da quando ero io, come loro. Ma taccio, certo: certe cose non si dicono.
Mi godo quindi i giorni in cui la casa è piena di vita, come si godono gli ultimi giorni caldi d’estate. Non dirò mai ai miei figli: restate. Loro, devono andare.
Aspetterò, paziente, che il tempo scorra, e che infine arrivino i nipoti che statisticamente, mi dico a consolarmi, mi spetterebbero, secondo i miei calcoli. E quando me li porteranno questa casa grande di nuovo respirerà, piena di vita.
Nelle stanze vuote percorse dai gatti padroni, a coda alta, quasi insolenti, sorrido infine di questo secondo parto che si compie in silenzio. Andate, ragazzi: non siete nostri, ci siete stati soltanto affidati.
Fonte: Quando i figli vanno per la loro strada | Tempi.it