Come essere felice – Semplice e allo stesso tempo molto difficile
— 12 Luglio 2016 — pubblicato da Redazione. —Questa domenica nel Vangelo abbiamo letto che è stato chiesto a Gesù quale fosse la via giusta per arrivare al cielo: “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”
È la stessa domanda che, con purezza di intenzione, gli ha posto anche il giovane ricco. Cosa devo fare? Cosa devo cambiare per essere felice per sempre?
Ascoltiamo una risposta alla domanda sulla vita eterna: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”.
Tutto si decide nell’amore. L’amore per Dio. L’amore per il prossimo. Siamo fatti per l’amore. So bene che per essere felici sulla terra e poi in cielo c’è solo una via: imparare ad amare. È molto semplice e al contempo molto complicato.
Quanto costa amare bene, amare in modo maturo! Dice papa Francesco nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia: “Ci sono persone che si sentono capaci di un grande amore solo perché hanno una grande necessità di affetto, però non sono in grado di lottare per la felicità degli altri e vivono rinchiusi nei propri desideri”.
Gesù ci ha detto che “vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (Atti 20, 35).
L’amore è la chiave. La mia capacità di amare Dio e di toccare il suo amore. Il mio cammino di felicità inizia nel mio cuore. Il comandamento è molto vicino a te: nel tuo cuore e nella tua bocca. Lì si gioca la mia felicità. Amare con tutto il cuore. Amare con tutta l’anima. Amare sempre. Dio, il prossimo.
Gesù lo dice chiaramente: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma “E chi è il mio prossimo?” Nella ricerca ossessiva di ricette, vogliamo avere chiaro come agire. Fin dove devo amare? Amare il prossimo. Chi è il mio prossimo? Si vuole delimitare bene fin dove amare.
Qual è la misura del mio amore, il limite? Non voglio amare in modo eccessivo. Non sono disposto ad amare senza misura. Un amore localizzato, determinato, senza estremi. Un amore concreto che non mi sottragga alle mie comodità.
La parabola del buon samaritano mi parla di un prossimo che non conosco, che non amo perché è straniero, che non desidero perché è bisognoso e mi può privare del tempo, del denaro, della libertà, della pace.
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre”.
Questa parabola mi mette sempre a disagio. I tre hanno visto l’uomo sul ciglio della strada. Io stesso sono il sacerdote, il levita, il samaritano. Tutti e tre hanno visto l’uomo ferito. Anch’io lo vedo. Ma nel sacerdote e nel levita il cuore è rimasto insensibile.
Si sono allontanati perché vedevano solo con gli occhi, non con il cuore. Non erano disposti a un amore senza misura. Quell’uomo non era il loro prossimo. Era fuori dai limiti. Guadavano solo con giudizio e superbia, non con la semplicità di un uomo che guarda un altro uomo che ha bisogno di aiuto.
Sicuramente i due dovevano fare cose importanti, avevano incarichi di spicco. Dovevano svolgere missioni buone e sacre. La loro presenza era necessaria. Luca non dice se hanno sentito qualcosa guardando il ferito, dice solo che sono passati oltre.
Per poter arrivare alla mia destinazione, a volte devo passare oltre, così non mi tocca quello che accade accanto a me, così non mi sento colpevole. Se mi allontano, non guardo quegli occhi che mi supplicano e non lascio che la compassione mi cambi i progetti. Assomiglio tanto al levita e al sacerdote!
Sento che spesso la cosa migliore è allontanarmi, perché se non lo faccio mi complico la vita. Loro hanno proseguito il loro cammino importante e pieno di responsabilità. Non potevano fermarsi, perdere il loro tempo, smettere di fare ciò che dovevano fare.
Se non avessero avuto nulla da fare, forse si sarebbero fermati ad aiutare. Ma non era possibile, li aspettavano, erano necessari.
Quanto è difficile cambiare i nostri progetti quando ci crediamo importanti! Quanto mi costa fermarmi davanti a un imprevisto! Quante volte Dio è nascosto nell’imprevisto e io non lo trovo, non mi fermo, passo oltre e non vedo la sua impronta!
Il levita e il sacerdote non hanno visto Dio in un uomo ferito. Parlavano di Dio, ma non hanno donato l’amore di Dio. Quante volte io parlo di Gesù ma poi non sono Gesù nel mio amore, nella mia dedizione!
La vita del sacerdote e del levita non è cambiata nell’incontro con quell’uomo. Non c’è stato incontro, e il cuore è rimasto uguale. Neanche se lo saranno ricordato. Non ha rotto i loro schemi né li ha fatti pensare a qualcosa di nuovo. Non hanno rinunciato a nulla, non hanno ceduto, non si sono aperti alla sorpresa.
A volte io sono così, e vado per la mia strada. Vedo delle necessità ma passo oltre. Preferisco che le necessità degli altri non interferiscano nella mia vita. E giustifico tutto partendo da me stesso. Penso di non potere, che se potessi lo farei, ma mi aspettano. Cerco scuse.
In fondo sto dicendo che sono più importante di quell’uomo. Credo che chi mi aspetta sia più importante e che forse si sentirà defraudato. Non compio le aspettative. Il mio cuore non si commuove vedendo chi ha bisogno di me.
Cosa sarebbe successo se il sacerdote avesse visto un altro sacerdote ferito? O il levita un altro levita? Non lo so. Forse sarebbe stato il suo prossimo.
Ricordo una volta sul cammino di Santiago. Non ci volevano ospitare in una parrocchia, fin quando il parroco non ha saputo che eravamo sacerdoti. Vedendo che eravamo “colleghi”, così ci ha chiamati, ci ha fatti entrare. Essendo sacerdoti come lui siamo diventati “prossimo”. Prima non lo eravamo.
Forse nella parabola si sarebbero avvicinati se lo avessero riconosciuto. Non lo so. A volte il potere, l’incarico che abbiamo, il denaro che guadagniamo induriscono il cuore. Ci rendono lontani da chi soffre. Non siamo più prossimi. Non ci sono più prossimi vicini.
Forse il samaritano aveva provato nella sua vita il disprezzo e l’emarginazione, e quell’esperienza lo ha reso particolarmente sensibile a qualsiasi ferito, a qualsiasi persona vulnerabile. Anche lui sapeva di essere ferito, e il suo cuore era più aperto.
Chiedo a Dio di non credermi mai importante, di non allontanarmi mai dal mio prossimo, chiunque sia. Di non smettere mai di sentirmi semplicemente uomo, pellegrino, come tutti. E che le mie ferite mi rendano più umano, più comprensivo, più vicino.
Vorrei fare quello che fa il samaritano. Voglio imparare ad amare Gesù, a vivere come Lui, ad essere come Lui. Anche a costo di lasciare la mia anima per la via e di inciampare mille volte per non passare oltre.
“Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno’”.
Voglio fare come mi dice Gesù: “Va’ e anche tu fa’ così”. Vedendolo, ebbe compassione e si avvicinò. Credo che la chiave sia questa, ed è quello che imploro sempre. Avere un cuore di carne che mi faccia commuovere. Ma molte volte non lo so fare.
Quest’uomo si avvicinò perché provava pena. Non poteva passare oltre. Sicuramente l’incontro con questo ferito ha cambiato la sua vita. Amare cambia tutto.
Si è avvicinato, e ha fatto più del minimo che poteva fare. Questo mi commuove. Non era necessario fare tanto. Rispetto agli altri che sono passati oltre, era già tanto portarlo in una locanda e metterlo in salvo. Ma ha amato più del minimo, del necessario.
Non ha chiesto aiuto, lo ha fatto lui personalmente. Si è coinvolto. Si è macchiato con il sangue del ferito. Si è esposto. Ha perso il suo tempo per amore. Ha amato con tenerezza. Ha bendato le sue ferite. Le ha lenite con l’olio. Le ha guarite da dentro e da fuori. Ha calmato la sua pena e il suo dolore. La sua rabbia e la sua ferita.
È la stessa cosa che ha fatto Gesù, quando per le strade guariva il corpo e l’anima. Curava e perdonava.
Non sappiamo chi fosse questo samaritano. Non importa il suo incarico, la sua missione. Ci sono solo un uomo ferito e un uomo misericordioso. Due uomini che si incontrano. Uno che soffre e l’altro che si commuove.
Ha messo il ferito sul suo cavallo. È la stessa cosa che Gesù fa con me. Mi fa salire sulle sue spalle quando ho bisogno di aiuto. Lui è così. A volte non lo chiedo. Chiedo solo che da lontano faccia il miracolo.
Ma Dio si commuove davanti al mio dolore. La mia tristezza, la mia solitudine, la mia paura, la mia malattia, il mio vuoto, la mia delusione, la mia perdita toccano il suo cuore. La mia vita tocca il suo cuore. Si commuove davanti a me e si avvicina. Si abbassa, si spoglia per arrivare a me.
Non aspetta sul suo trono che io vada da lui. Viene e benda le mie ferite. Quelle che mi infliggono gli altri, o io stesso, o la vita. Le benda, dicendomi nell’orecchio che mi vuole bene, di non temere, che non mi lascerà solo, che mi perdona, che ha fiducia in me.
Quando ho sentito questa vicinanza di Dio? Mi porta sulle spalle. Sulla sua cavalcatura. Lo fa senza chiedermi niente. Lo fa gratis. Nella parabola c’è solo gratuità. Un amore traboccante che va al di là del minimo e di quello che ci si poteva aspettare.
Oggi ci sono tante ferite dovute all’abbandono, alla solitudine. “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?” Ci sono tanti prossimi sul ciglio della strada che hanno bisogno della mia vita, del mio tempo, della mia tenerezza, del mio amore…
Ma io guardo l’atteggiamento del samaritano e mi sembra eccessivo. Il samaritano ha praticato la misericordia. Ha smesso di pensare ai suoi progetti, al suo cammino. Anch’io voglio praticare la misericordia. Gesù mi insegna a guardare così. Si ferma davanti a chiunque.
Voglio che questa sia la norma della mia vita. “Va’ e anche tu fa’ così”. Voglio che la mia vita sia questo, fare lo stesso. Ma non so farlo. Come farlo? Dove farlo? A volte non lo so. Non vedo nemmeno dove sono necessario.
Forse sono troppo concentrato su quello di cui ho bisogno, sul mio cammino di felicità, e dimentico le cose importanti. Il mio prossimo è chiunque abbia bisogno di misericordia. Penso a Gesù. Mi pace quel samaritano che che consegna l’uomo ferito all’albergatore e gli dice “Al mio ritorno”. Tornerà.
Dio torna sempre a cercarmi, e nel frattempo mi lascia alle cure di altri che mi amano: i miei genitori, il mio coniuge, i miei figli, i miei amici, i miei fratelli. Mi lascia perché si prendano cura di me. Ed Egli torna sempre.
A chi mi ha affidato Dio perché abbia cura di me?
Allo stesso tempo, io sono l’albergatore. Mi chiede di prendermi cura di tanti feriti. Chi mi ha affidato perché me ne prenda cura?
Penso che l‘unico modo di vivere davvero sia stando vicino agli altri, essendo prossimo. Così ci ha pensati Dio – vicini, che si aiutano, portandosi gli uni agli altri per arrivare a Lui.
Ma a volte vivo lontano, chiuso nel mio gruppo di uguali. E parlo di Dio, ma la sua legge non è altro che nella mia mente – non nel mio cuore, non nella mia vita. Il cammino è stare vicini. Sollevare chi soffre. Sostenere chi ha bisogno di me. E smettere di costruire muri difensivi nell’anima.
Non voglio più passare oltre. Voglio uscire dal mio percorso e da me stesso. È così che voglio vivere.
Forse alla fine della giornata, al tramonto, il sacerdote e il levita non hanno ricordato di aver fatto nulla di male. Hanno compiuto il proprio dovere. Non hanno deluso nessuno. Non hanno smesso di fare quello che avevano promesso.
Forse hanno avuto successo. Forse non hanno peccato molto. Ma la gratuità? Non c’è stato niente di straordinario, niente fuori del normale, i loro piani non sono stati rovinati. Ma forse è mancato loro l’amore. Un amore senza misura, traboccante. Non hanno fatto nulla di folle per amore.
Dal canto suo, forse, il samaritano, in ginocchio davanti a Dio, riconosce di aver provato rabbia per quello che hanno fatto quegli uomini che hanno evitato il ferito. Forse nel suo cuore ha criticato e ha avuto la tentazione di non lasciarsi coinvolgere tanto.
Non lo so. Forse la sua giornata non era perfetta come quella degli altri. Forse è arrivato tardi al lavoro, macchiato di sangue. Può essere che il denaro che ha investito in quello sconosciuto fosse destinato ad altro. Forse ha perso qualcosa.
E forse alcuni lo criticano per essere stato così poco responsabile e aver perso il suo tempo sulla via con uno sconosciuto. Può essere. Ma quello che è vero è che il suo cuore quel giorno è diventato più grande. Era un uomo buono. Forse conoscere il ferito e sperimentare la gratuità gli ha fatto bene.
C’è più gioia nel dare che nel ricevere. Si è svuotato e ha sperimentato quell’allegria profonda di dare al di là della giusta misura.
Fonte: Aleteia.org