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Baroncini, le confessioni di un vecchio leader di CL: Dio fa quello che vuole

Tra i primi a seguire don Luigi Giussani, per 40 anni gli è stato a fianco nella guida di Comunione e Liberazione. Ora, appena celebrati i 50 anni di sacerdozio, in questa intervista don Fabio Baroncini racconta la sua vocazione («la testimonianza che Dio è fedele») e il suo incontro con don Giussani («la scoperta che Cristo è la salvezza per ogni uomo»). E lascia un compito: «Resistere, resistere….»

 

La lunga vita sacerdotale? «È vedere realizzata la promessa di Dio». Don Giussani? «Per me ha significato scoprire che Gesù Cristo è la salvezza per tutti gli uomini, scoprire l’orgoglio di essere cristiani». Comunione e Liberazione? «Non ha ancora realizzato la genialità di Giussani». A parlare così è don Fabio Baroncini, che del movimento fondato dal servo di Dio don Luigi Giussani non è soltanto uno della prima ora, ma è stato parte del ristretto gruppo di amici che per 40 anni ha condiviso con Giussani la responsabilità del movimento.

Lo incontro in un caldo pomeriggio di fine luglio nella canonica della sua parrocchia di San Martino a Niguarda, un paesino inglobato nella città di Milano, a due passi dal famoso Ospedale Maggiore Ca’ Granda. A 74 anni, e dopo 30 anni da parroco in questa chiesa, tra pochi giorni lascerà questa casa parrocchiale perché si è dovuto dimettere per motivi di salute e si trasferirà in un nuovo appartamento. Incontrandolo oggi, in questo uomo alto e magro, reso curvo e fragile dalla malattia, che cammina con difficoltà e parla con un filo di voce, apparentemente è difficile riconoscere quel prete “montanaro” che con agilità fuori dal comune guidava i suoi ragazzi su tutte le montagne delle Alpi – anche in escursioni notturne – per fare apprezzare il gusto della bellezza del Creato. Eppure, proprio in questa fragilità risalta ancora di più un’energia che non viene dall’uomo, quello spirito indomito e quella urgenza di rendere presente a tutti il fatto cristiano che ancora oggi, a dispetto della debolezza fisica, lo vede girare instancabilmente per tante famiglie, gruppi, comunità di giovani e vecchi di Cl, per rendere presente il carisma di don Giussani. Don Fabio Baroncini ha appena celebrato i 50 anni di sacerdozio: venti anni passati da coadiutore a Varese, dove è stato l’anima di una delle comunità più numerose e vivaci di Cl e che per l’occasione gli ha dedicato una grande festa, e poi trenta da parroco a Milano.

Don Baroncini, come sintetizzerebbe questi 50 anni di vita sacerdotale?
Sono la testimonianza della fedeltà di Dio al compito che ci dà, alla vocazione cui ci chiama. Arrivato a 50 anni della mia ordinazione sacerdotale vedo oggi che il Signore è stato fedele. All’inizio ho dovuto rischiare sulla speranza, cioè sulla certezza che il futuro mi avrebbe restituito quello che io desideravo, quando tutto apparentemente sembrava dire il contrario. Oggi, dopo 50 anni di vita sacerdotale, dico che questa fedeltà di Dio l’ho verificata.

Come si concretizza questa fedeltà? In cosa consiste questa promessa realizzata?Consiste nel fatto che la mia vita così com’è, con le sue banalità quotidiane, può essere un’offerta a Dio attraverso la quale tanta gente, mi pare di poter dire, abbia creduto in Gesù Cristo.

In 50 anni di sacerdozio sono sicuramente tanti i fatti e le suggestioni che varrebbe la pena fossero raccontati. Ma quale aspetto in particolare l’ha colpita?
Mi ha sempre colpito la stima di cui sono stato circondato come prete, da tanta brava gente. Ricordo che quando sono diventato parroco qui a Niguarda, andai a parlare con monsignor Ferrari, che era vicario generale di Milano. E lui mi disse: “Guarda, a Niguarda troverai tanta brava gente, che ti darà quello che potrà. E infatti a Niguarda la cosa che mi ha stupito in questi tempi recenti è di quanto la gente voglia bene ai suoi preti.

Come ha riconosciuto la sua vocazione?
Non lo so. Voglio dire che riflettendo sulla decisione di andare a prete ho fatto l’analogia e il paragone con la decisione di sposarsi. Ho sempre detto ai miei interlocutori: non sapreste dirmi neanche voi perché avete scelto quella persona da sposare. Potete solo dirmi che sapevate che era lei che volevate sposare. Così io non so perché né cosa voleva dire essere prete, io so che volevo diventare prete. E questa strana convinzione mi ha accompagnato fin da piccolino, dai tempi delle mie vacanze estive con mia nonna in Valtellina, dove pregavo perché si realizzasse quello che Dio voleva da me.

Eppure non è entrato in un seminario minore, come molti a quel tempo.
No, sono entrato in seminario a 19 anni, dopo il diploma di ragioneria.

Come ha inciso la sua famiglia nella vocazione?
Da mio padre ho preso la serietà dell’esistenza come criterio del vivere. Da mia madre la fedeltà alla parola data, cioè: se uno si impegna in una cosa deve portarla fino in fondo.

Fin da piccolo lei sentiva questo desiderio di diventare prete, ma nell’adolescenza, prima di entrare in seminario, ci sono stati incontri che l’hanno confermata e aiutata in questa convinzione?
Sono assolutamente debitore alla misericordia di Dio di avermi fatto incontrare don Luigi Giussani.

Quanti anni aveva?
14 anni, sessanta anni fa.

Che cosa ha significato don Giussani per la sua vita?
Ha significato la possibilità di scoprire che Gesù Cristo è la salvezza per gli uomini (Efesini, capitolo 1). E che io avrei potuto assumermi le mie responsabilità di uomo facendo il cristiano, servendo Gesù Cristo. Cioè Cristo centro della storia dell’umanità. Ho imparato che le condizioni storiche mi erano date come modo di realizzazione di questo compito, di questa vocazione: «Ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo e quelle della terra, principati e potestà, perché qui non c’è più né greco né giudeo, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma siamo uno solo in Cristo».

Con il servo di Dio don Giussani lei ha vissuto tantissimi anni fianco a fianco, ha condiviso la responsabilità nel movimento. Cosa ricorda maggiormente di questa compagnia con don Giussani?
L’orgoglio di essere cristiani. La profonda verità umana dell’essere cristiani. Quello che mi ha sempre colpito è questo. Quando ero piccolino, mi sembravano più umanamente vivaci quelli non cristiani, per così dire quelli non fedeli alle pratiche. A differenza di questo, stando con Giussani ho scoperto che si poteva essere umanamente pieni e realizzati proprio nell’essere cristiani, nel seguire Cristo.

A Varese lei ha passato vent’anni e attorno è nata una grande comunità. Cosa di questi anni ricorda in modo particolare?
La verifica, il vedere documentato che Cristo messo al centro dell’esperienza umana rende più umano il vivere.

A Varese lei è stato coadiutore, a Milano parroco. Insomma, lei è stato sempre in parrocchia, sembra quasi un paradosso se si considerano le tante critiche che hanno accompagnato Cl e i suoi – più o meno presunti – rapporti conflittuali con le parrocchie.
Invece ho imparato da don Giussani che il movimento da lui fondato era un movimento ecclesiale, non era avulso dalla vita della Chiesa, ma era per la realtà della Chiesa. Facendo il prete ho potuto scoprire che questo era vero. Sono una delle poche persone che conosco soddisfatte di essere prete.

Nella storia di Cl, in questi 60 anni, si è passati attraverso tante fasi storiche, molto diverse fra loro, sia nella società sia nella Chiesa. Cosa permane del carisma?
Questo sono ancora curioso di scoprirlo oggi. Aspetto la fine della mia vita per capirlo di più. Ma mi sembra che sia l’annuncio cristiano preso nella sua integralità. Questa mi sembra sia stata la genialità vera di don Giussani: scommettere tutto sull’annuncio cristiano come fatto, come evento.

In questa fase della vita lei deve affrontare una nuova prova, una malattia che curiosamente la accomuna ancora una volta a don Giussani…
Preferirei non parlarne, perché siamo agli inizi e non capisco ancora cosa voglia dire. Ma c’è un episodio della vita di don Giussani che mi è ritornato prepotente alla memoria in questi giorni. Nel 1972 con don Giussani condividevo la responsabilità degli universitari degli atenei milanesi: Giussani seguiva la Cattolica e la Statale, io gli altri atenei. Una volta ero arrabbiato con gli universitari, sono andato da Giussani e gli ho detto: “Gius, fai una delle tue lezioni sulla decisione”. “Perché mi dici così?”, mi risponde lui. «Perché gli universitari sono sul pero, non si decidono mai a prendere sul serio la storia che hanno sottomano». E lui mi disse: “Vedi Fabio, nel 1941-42 io ero in seminario, c’era la guerra, e ho preso la tubercolosi, mi hanno mandato a casa. Per sei mesi sono vissuto chiuso nella stanzetta di casa mia, non avevo più la forza di decidere niente, potevo soltanto offrire la mia impotenza, cosa che ho fatto per sei mesi. Vedevo mia mamma entrare dalla porta nella stanza, la vedevo piccolina così, distante da me, con in mano la ciotola del brodo, che era l’unica medicina che c’era al tempo della guerra”. Fine. Io ricordo lucidamente che mi sono detto: “Bene, non vuole fare la lezione sulla decisione; il movimento è suo, s’arrangi”. Poi qualche mese dopo ritornando sulla questione mi sono sorpreso a stupirmi di come il Signore da un uomo impotente abbia tirato fuori un movimento di decisionisti. In altre parole, Dio fa quello che vuole.
Vede, ogni prete all’inizio del cammino sacerdotale sceglie una frase. La mia è tratta da Efesini 1, 6: In laudem gloriae gratiae eius (a lode della gloria della sua grazia). Dio ha fatto tutto questo a lode della sua gloria. È questo che dobbiamo gridare a tutti.

Ha citato l’Università. Da allora lei continua tutt’oggi a seguire le comunità di universitari. Riesce a fare un confronto tra i giovani degli anni ’70-’80 e quelli di oggi? Cosa è cambiato?
Penso sia Il fattore ideologico. Allora si era vissuto il ’68, e questo voleva dire un entusiasmo, una progettualità, un’apertura, uno sguardo positivo sul futuro, una lotta per questo. Oggi mi sembra che tutto questo si stia riducendo a un sentimento.

Che la fase storica sia molto diversa non c’è dubbio, ma oggi si sente molto questa retorica sui tempi che sono cambiati, per giustificare un cambiamento nel modo di comunicare la fede alle persone. Invece stupisce come le cose dette, scritte da don Giussani e da voi ripetute nel tempo rimangano sempre attuali.
Questo stupisce anche me. È proprio vero. Piuttosto, l’unica cosa a cui si deve stare veramente attenti è a non perdere noi l’entusiasmo della proposta che facciamo.

Il cardinale Giacomo Biffi diceva che noi dobbiamo preoccuparci di credere, non di essere credibili.
È sempre stato acuto Biffi, guardava bene aldilà delle apparenze. Questa esigenza di essere credibili ha travolto la vita della Chiesa. Anche se la cosa è giusta in sé e per sé, non bisogna farla diventare il dio del metodo cristiano. Altrimenti Dio Padre sarebbe ridotto a portatore dei valori umani.

In chi la conosce, una delle cose che ha sempre colpito è la capacità di presentare autori della letteratura anche molto diversi fra loro – da Dostojevski a Eliot, da Milosz a Peguy, da Dante a Manzoni – in un modo affascinante, facendo sentire questi autori come nostri contemporanei. E la cosa stupisce ancora di più perché lei ha una formazione scolastica tecnica, non umanistica. Qual è il segreto di questo fascino?
È l’educazione ricevuta da don Giussani. Bastava seguire il metodo che Giussani dettava. È lui che ha sempre voluto che si affrontassero questi autori, facendo il paragone tra la nostra vita e la loro proposta.

All’inizio degli anni ’90 don Giussani chiese che la rivista del movimento, Litterae Communionis, dedicasse una serie di articoli ai paesi islamici. Eravamo ben lontani dagli anni della rinascita islamica, del fondamentalismo e degli attentati terroristici. Eppure don Giussani suggeriva che quello sarebbe stato il tema del futuro. Cosa vedeva lui nell’islam?
Questa è la forza profetica di don Giussani, che è sempre stata rilevante. Glielo ha riconosciuto perfino Bertinotti. L’islam aveva una presa popolare formidabile, entrava dentro in merito ai problemi umani determinando l’atteggiamento della gente. Comunque la sua idea era: chissà che Dio non voglia che l’islam si converta attraverso questa ultima prova a cui è sottoposta la Chiesa. Certo, non aveva alcun sentimento d’inferiorità.

Se lei oggi dovesse scrivere il suo testamento spirituale, rivolgersi a tutti quelli che l’hanno seguita, ai suoi amici: cosa le preme di più comunicare?
Paradossalmente direi la stessa cosa che disse un famoso giudice milanese dimettendosi: resistere, resistere, occorre resistere. Era anche l’insegnamento di mio padre che era un vecchio socialista, come struttura di pensiero non politicamente. Diceva: l’uomo vero è quello che lavora, quello che si impegna, mica come i preti che non fanno niente tutto il giorno (sorride). E questo era mio padre che era un grand’uomo.

Resistere. Cosa vuol dire?
Essere fedeli alla storia così come il Signore ce l’ha rivelata, come ce l’ha fatta vivere. Se uno viveva ai tempi di sant’Agostino, l’esperienza cristiana era nel riconoscimento della genialità di Agostino. Oggi viviamo tempi in cui il riconoscimento della genialità di Giussani aspetta ancora di essere realizzato, ed è contraddetto proprio all’interno del movimento. In sé questa resistenza non ha alcun accento di caparbietà. È solo la scoperta che Dio si serve di tutta la storia per manifestarsi. Noi non dobbiamo essere fedeli alle nostre idee ma a ciò che ci è accaduto.

Fonte: LaNuovaBQ

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