Il delirio del potere, il limite della morte – Chi crede saprà aspettare
— 27 Settembre 2016 — pubblicato da Redazione. —La morte è per noi, nello stesso tempo, un’esperienza-limite e un’esperienza del limite: un evento straordinario, che, proprio per la sua eccezionalità, ci pone di fronte alla nostra radicale finitezza. (…) La situazione del sopravvivere è la situazione centrale del potere.
Elias Canetti, Potere e sopravvivenza
La promessa della Bibbia è stata sempre difficile da capire e da accogliere perché troppo diversa da quelle dei falsi profeti, diversissima dalle promesse degli idoli e delle ideologie. È stata tradita mille volte dal popolo, dai suoi re, dal tempio. Ma è stata tenuta viva e alimentata dai profeti, custodita da un “resto” che in certi momenti storici è diventato minuscolo, un piccolo virgulto sbocciato e risbocciato da un tronco tagliato che sembrava morto per sempre.
Solo questo “resto”, fatto di poveri e umili, capisce i profeti perché non ha smesso di credere in quella difficile antica promessa. E tutte le volte che qualcuno continua a sperare quando gli imperi stranieri conquistano distruggono deportano, che non dimentica le antiche preghiere quando il tempio si popola di nuovi idoli alla moda, che non smette di gridare per invocare la causa del povero, che inchiodato su una croce non maledice i suoi carnefici né Dio, diventa parte di quel “resto”, inconsapevole cittadino di quel regno, sale e lievito. Della terra, di un paese, di una impresa, di una comunità – ogni gruppo umano ha il suo “resto” fedele che può salvarlo, e spesso lo salva.
Questo piccolo regno invisibile è sempre insidiato e minacciato di estinzione. Quando continua a vivere lo deve molto ai profeti, che nutrono il “resto” raccontandogli mille volte l’antica promessa, e nel raccontarla la rigenerano ogni volta nella propria carne. Pronunciando parole di futuro, offrendo se stessi come caparra visibile e concreta della terra promessa che non c’è ancora. Lo proteggono, come una leonessa con i suoi cuccioli, dalle seduzioni sempre nuove dei falsi profeti.
Le prime bevande inebrianti della falsa profezia e dei falsi culti sono le loro liturgie, strapiene di parole e di gesti al punto da non lasciare allo spirito nessun pertugio dove tentare di entrare. Che quindi allontanano i fedeli dalla umile fatica del vivere, e li fanno girare per le strade ebbri delle loro sbornie. Forse è dopo aver assistito a uno di questi riti orgiastici che Isaia esclama: «Tutti i tavoli colano vomito, traboccano di escrementi» (28,8).
Questo tipo di conflitto prende non di rado la forma della derisione e dello scherno: «A chi la conoscenza rivelerà? A chi il mistero discoprirà? Ai lattanti slattati, ai poppanti?» (28,9). Gli oppositori di Isaia affermano di non avere bisogno della sua rivelazione, una conoscenza utile solo ai bambini non ancora svezzati. E così lo prendono in giro, lo sbeffeggiano con una filastrocca (forse) usata dalle mamme di Gerusalemme per insegnare ai bambini a parlare e/o a camminare: «Tzau-latzau, Tzau-latzau, Qua-Laqàu, Qua-Laqàu, Zeer-shàm Zeer-shàm» (28,10).
Isaia si rivela fine conoscitore e disvelatore di uno degli spiriti più potenti della terra: lo spirito del potere – uno spirito che il nostro tempo ha cancellato, dichiarandolo d’ufficio argomento non più attuale né utile per capire il nuovo capitalismo e le nuove democrazie.
Questo delirio è intrinseco al potere. Il potere – politico, religioso, carismatico… – genera la sensazione, che presto diventa certezza, di non essere come gli altri viventi («…da noi non verrà»), di avere finalmente conquistato-acquistato la grande immunità dai mali del vivere, e quindi dalla morte, il male più grande. Di essere come Dio. Ritorna l’antica promessa del serpente, che ci seduce sempre tutte le volte che torna – il grande mito del capitolo 3 della Genesi è anche un discorso antropologico sul potere, che è sempre e immediatamente discorso religioso.
Niente più del potere separa e immunizza da chi il potere non ce l’ha – ecco perché ogni potere tende per sua natura a diventare potere assoluto: un “solo uomo al comando”, e ogni potere condiviso è potere imperfetto e instabile. L’immortalità conquistata dal potente è rimozione dell’orizzonte della morte dalla vita concreta, e quindi di qualsiasi orizzonte più grande dove potrebbe trovarsi un tribunale nel quale un giorno qualcuno ci chiederà conto delle nostre azioni. Quando si è padroni degli altri ci si sente veramente dei, anche quando il nostro paradiso è soltanto una città, un ufficio, un convento.
Gli uomini non più giovani cercano di restare al potere soprattutto, e forse soltanto, per restare giovani e quindi per illudersi di non morire, senza riconoscerne l’illusorietà: quasi tutta la forza e la fragilità del potere sta in questa grande illusione che non si presenta come tale.
È interessante e molto eloquente che molte culture abbiamo usato la metafora economica per esprimere questo commercio scellerato tra potere e morte. Ci si svela di più la natura del denaro, la sua pretesa-promessa di poter comprare tutto, anche l’impossibile. Sta qui il fascino infinito del denaro, che invece di ridursi aumenta con la sua accumulazione.
Ma perché un simile contratto possa promettere un premio infinito, la controparte può e deve chiedere tutto: l’anima, la vita intera. Ecco allora che gli uomini, ieri oggi sempre, offrono sull’altare del potere tutti i loro affetti, tutti gli amori, tutte le speranze, la dignità. Perché non cerchiamo tanto o soltanto i privilegi e i contenuti diretti del potere: cerchiamo l’immortalità, vogliamo sopravvivere alla morte.
Ciò che non muore non è il potere con le sue illusioni mortifere. Ciò che veramente non muore è chi è capace di credere nella promessa vera e umile, che è grande perché è piccolo. Non moriamo finché siamo capaci di restare dentro l’attesa del compimento della promessa, che sopravvive veramente nei figli, nei nipoti, nei bambini del “resto” di domani. Per non morire possiamo fare solo questo. Non c’è altra immortalità buona sotto il sole. Chi crede saprà aspettare.
Fonte: Avvenire.it