Non tanti preti, ma preti preparati
— 27 Novembre 2016 — pubblicato da Redazione. —“Assolvete medici e donne che abortiscono”. Ho cercato il lato positivo di questo annuncio mal tradotto da “Repubblica”, benché tra parentesi resta sempre “peccato grave”. Da “abominevole delitto” (linguaggio del Vaticano II) a “peccato grave” (linguaggio misericordioso). Forse c’è di più di un aggiornamento lessicale, forse c’è in mezzo una questione di scomunica latae sententiae, ma “nessuno di noi può porre condizioni alla clemenza divina”.
Ho cercato il lato positivo, e non è questo. Questo invece posso vedere, cogliere come buono: grazie a questa liberalizzazione del perdono, anche Repubblica ed altri hanno dovuto fare questa uguaglianza. Aborto=peccato=perdono. Mentre da molto tempo aborto ha fatto lega con diritto.
Sappiamo che “l’aborto è un grave peccato perché pone fine a una vita innocente” (Misericordia et misera). A me però non basta. L’aborto è un delitto detestabile, perché fa della donna, arca della nuova vita, la tomba per il proprio figlio. Ma questo cambiamento di destinazione della propria natura di donna, non è indolore. L’aborto uccide la madre non meno che la sua creatura. L’aborto uccide il desiderio di vita, di accoglienza, di dono, e fa della donna un mostro che rinnega la sua stessa natura.
Perché, per quanto il pensiero dominante ci voglia far credere che la differenza sessuale è un optional, la donna gestante è madre dalla punta dei capelli alle unghie dei piedi. Tutto il suo corpo, tutto il suo organismo, ha compiuto, anche solo nei primi tre mesi di gravidanza, delle acrobazie strabilianti per adeguarsi alla nuova situazione. È questa una verità che nessuno può negare.
Basta esaminare gli studi sul cross-talk: comunicazione chimica e biologica madre-figlio, la più stretta simbiosi esistente tra due creature! A volte di aborto si muore anche. Ma l’aborto uccide “dentro” la madre che lo decide. Colpisce la donna nell’anima, distrugge la sua via affettiva, sessuale, distrugge la stima di sé, deforma la sua capacità di rapporti sociali, la lascia in una solitudine disperata dalla quale non riesce ad uscire. Quante volte ho sentito: “Sono morta con il mio bambino”. Quante volte ricevo telefonate nel giorno in cui ricorreva l’aborto… “sono passati anni, ho avuto altri figli”, ma quel 12 giugno il mio cellulare squilla e insieme ripensiamo a quel figlio, lo chiamiamo per nome con rimpianto, con dolore… un dolore che non finirà mai.
Senza sentire l’amore di Dio, la confessione non giova. Senza sentire l’amore dei fratelli, il perdono di sé non c’è. E l’anima è chiusa in un involucro che la costringe giorno e notte. Di giorno impotente a vivere, di notte a liberarsi dagli incubi ricorrenti.
Dico questo perché la mamma cristiana che, come dice S. Giovanni Paolo II, “si è lasciata tentare dall’aborto”, non cerca una giustificazione, né un banalizzazione del suo atto, benché spesso non manchino i condizionamenti. Ciò che può aiutarla a rinascere è scendere con lei nell’abisso della morte e (come Cristo nella discesa agli inferi prende per mano Adamo ed Eva, cioè tutta l’umanità) aprirle un cammino di Risurrezione. Questo è la confessione: rituffarsi nelle acque del battesimo per rinascere a vita nuova con Cristo Signore.
Ora, perché avvenga questa risurrezione, non è tanto necessario che ci siano molti preti a disposizione per l’accusa dei peccati e l’assoluzione “mordi e fuggi”, ma piuttosto preti consci della gravità della situazione di peccato di chi confessa: “Sono stata assolta tre, quattro, dieci volte, ma non mi sento perdonata!”.
“Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato con l’accoglienza e l’attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell’uomo”. Voglio sottolineare il n. 99 di Evangelium Vitae come il linguaggio più comprensibile per chi ha praticato l’aborto: circondare la persona dell’amore salvifico del Signore ed essere “competenti”, cioè sapere quali passi deve compiere perché possa credere che Dio perdona.
“Anche se ho ucciso mio figlio? Anche se ho fatto la cosa più ripugnante che si possa fare?” Poiché lei non si perdona non può credere che l’amore di Dio è più grande del suo peccato. L’amore tangibile di chi la guida alla conversione, più che alla confessione, le permetterà in un tempo lungo di riconoscere la verità e contemporaneamente l’Amore di Dio. Il peccato è stato enorme, “abominevole”, verso Dio unico datore della vita, contro il figlio che non è una proprietà, contro se stessa.
L’ultimo, e più difficile, passo è mettersi allo specchio e chiedere perdono a se stessa (cfr. G. Chapman, J. Thomas, “I cinque linguaggi del perdono”, cap. 14).
Non sto qui mettendo in forse l’efficacia del sacramento del perdono, ma se la donna, dopo la confessione, non trova pace, significa che qualcosa non quadra. L’esperienza mi dice che “vai in pace e non peccare più”, trova il terreno fertile solo se è stata seminata la Parola di Dio. Quindi, se la confessione è preceduta da un cammino nella fede.
Chi sono i competenti? Certamente chi conosce gli effetti distruttivi dell’aborto sulla persona, sulla coppia, sugli altri figli. Quanti confessori sono a conoscenza che molti divorzi, separazioni, crisi depressive, suicidi, sono il frutto velenoso dell’aborto?
Insomma, la sindrome post-aborto non è un’invenzione dei pro-life. Credo proprio che la cura di “queste” anime non possa prescindere dalla conoscenza della situazione del peccatore. Inoltre, come scandisce Papa Francesco: “Niente di quanto un peccatore pentito pone dinanzi alla misericordia di Dio può rimanere senza l’abbraccio del suo perdono” (Misericordia et misera, 2).
Ma purtroppo non vedremo da domani i confessionali assediati da gente che vuole confessare l’aborto. Primo, perché presso il popolo cristiano questo sacramento è, come dire, in disuso. Secondo: perché probabilmente i milioni di aborti avvenuti in questi anni di legge 194, non sono assolutamente peccati di cui pentirsi, ma diritti raggiunti di cui gloriarsi!
Voglio ora ricordare che nella Chiesa americana (Wisconsin) molto è stato fatto con il “Progetto Rachele”. È la risposta pastorale che incarna ciò che aveva in mente S. Giovanni Paolo II: appoggia senza ambiguità la posizione profetica della Chiesa, secondo cui l’aborto è sbagliato e non è mai un bene per la persona né per la società. In questo progetto, valido per tutti gli USA, i vescovi hanno concesso ai confessori (che conseguono una qualificata competenza sia spirituale che psicologica) la facoltà di concedere l’assoluzione senza ricorrere all’autorità superiore.
Le Sisters of life, sempre negli USA, sono una congregazione fondata a New York dal Cardinale John O’Connor, di venerata memoria. Ai tre classici voti religiosi, esse aggiungo il voto di “difendere la vita”, fondamento della loro attività.
“Raccogliere i pezzi avanzati perché nulla vada perduto” (Gv 6,12). Queste parole di Gesù, riprese dal fondatore, rivelano la profonda condivisione della sofferenza causata dall’aborto. Le Sisters of life sono particolarmente preparate per accompagnare le persone con sindrome post-aborto.
Fonte: LaNuovaBQ