«Nella nostra fievole Europa, dopo settant’anni di pace, oggi non abbiamo personali ricordi di sangue, ma oscure visioni di orrendi eventi che imperversano in un altrove immaginato, fotografato, descritto ma non presente: e tuttavia siamo pervasi da oscure premonizioni, anche se con mille esorcismi tentiamo di ignorarle, di sistemarle in angoli bui e chiusi della nostra testa, fra i timori che non ci riguardano direttamente». Parole chiare, granitiche, dolorosamente autentiche, eppure scritte con delicata grazia. Così leggo nelle prime pagine del nuovo, splendido libro di
Antonia Arslan Lettera a una ragazza in Turchia, appena edito da Rizzoli, giusto in tempo per includerlo nei regali di Natale (o di Chanukkhah, come nel mio caso).
Sospendo la lettura e per un attimo assaporo compiaciuto un’emozione rara – appagante e a suo modo aristocratica, anche se per nulla snob –, quella della gratitudine verso chi ha trovato le parole esatte e calibrate, senza sbavature e nella giusta economia, per esprimere ciò che da tempo vado rimuginando e soffrendo ma che, quando interpellato, riesco a comunicare solo con inadeguata goffaggine. E intuisco che questa frase di Antonia Arslan, così potente nel suo vellutato realismo, diventerà una citazione di cui abuserò. E mi chiedo quale sia la radice ultima di questa gratitudine particolare: forse il senso di liberazione profonda che scaturisce dal vedere quella realtà, lungamente scorta, finalmente riconosciuta, e non tirannicamente fuggita o acquietata? Forse la scoperta, rinfrancante e intima – ma non intimista –, che esiste un altro “tu” con cui sei in sintonia e che ti fa sentire meno solo?
Riprendo a leggere: «E una paura subdola, sottile, come un gas venefico si insinua in ogni cuore. Perché loro, i superstiti di un tempo, avevano più speranza: l’orrore indicibile c’era stato, ma era dietro di loro, nel passato, non da qualche parte in un futuro possibile». Un’altra tremenda verità, che spesso fa capolino e che, ancor più spesso, si ricaccia, bandendola, nell’ultimo ripostiglio dei pensieri temuti e silenziati. Riconosco la lingua di Antonia Arslan, cesellata e fluente. E riconosco lo stile, sempre realista, talora drammaticamente, ma mai sgarbato.
Chi sono i superstiti? Gli armeni che sopravvissero ai massacri ottomani del XIX secolo, alle successive purghe efferate di inizio Novecento e, ovviamente, al genocidio perpetrato contro il popolo armeno dai Giovani Turchi e dai loro sostenitori e collaboratori nel corso della Prima Guerra mondiale. Alcuni armeni fuggirono in tempo, riparando in Europa o negli Stati Uniti, oltre Atlantico. Altri scamparono sì a un’ondata di violenze, ma trovarono crudelmente la morte in quella della generazione seguente. Altri ancora, sopravvissuti al genocidio e all’infuriare dell’abiezione omicida che sterminò le loro famiglie e che frantumò le loro esistenze, dimorarono poi in Europa, in Armenia e in ogni dove del mondo, ricostruendo il loro presente individuale e collettivo, determinati con tenacia e intelligenza a edificare un futuro per il loro popolo. Vi è, infine, un’ulteriore categoria di superstiti, talvolta ignara dei fatti talvolta no, ma mi diffonderò a tale proposito tra un po’, parlando della “ragazza di Turchia”.
Antonia Arslan ci consegna preziosi frammenti di storie vere, alcune delle quali, riscoperte recentemente, riguardano sia gli splendori sia le sofferte peregrinazioni della sua antica famiglia, gli Arslanian. Tre storie femminili, in cui la vita e la morte, la tragedia e il calore del focolare domestico, la speranza e la disperazione più cupa, si inanellano indissolubilmente. Incontriamo così la giovane Hannah, a cui è stato concesso di poter invecchiare, sopravvissuta e poi esule negli Stati Uniti, ove è divenuta un’imprenditrice di successo. Incontriamo la bella Iskuhi e il suo Khayel, infiammati di gioventù, di passione e di sogni per il loro popolo, da secoli avvilito e sottomesso. «Noi dobbiamo aiutarlo a riscoprire se stesso. A far rinascere la nostra antica cultura… E farlo vivere meglio, costruire ospedali e case per gli anziani, e scuole. Soprattutto scuole», pensa lui. E lei non è da meno. Antonia, infine, presta la voce a Noemi, perché racconti la sua tragedia e canti la sua straziante, ultima canzone. Riecheggia la Noemì biblica, «mia delizia», orbata, nel racconto dell’Arslan come nelle pagine della Scrittura, del suo uomo ed esposta all’imperversare degli eventi senza riparo alcuno, resa «amara», amarissima, da Dio (Ruth, I). Una Noemì – quella arslaniana – senza Ruth, però; una Noemì che non sopravvisse, che non ebbe modo di tornare in patria e di gustare nuovamente il bene. Una Noemì uccisa.
Ed eccoci, in conclusione, alla “ragazza” di Turchia. Antonia Arslan si rivolge a una giovane donna in un paese islamico, a una fanciulla in uno Stato che sta imboccando, tra mille titubanti e proni silenzi, derive totalitarie evidenti a tutti, opportunamente miscelate con l’islam politico. Straordinaria Arslan! Mi ricollega potentemente passato e presente e individua nel femminile inesausta forza narrativa e simbolica, come pure scomodo vaglio critico e speranza.
Ma c’è molto di più, proprio a proposito di quell’ulteriore categoria di sopravvissuti che poc’anzi ho evocato. In un passo del libro, Arslan affida un urlo a un accenno. Una verità forse ignota ai più è così affermata e ristabilita in punta di penna, un enorme atto di coraggio si traduce in parola. Così scrive: «È possibile, mia cara, è perfino probabile, che tu non sia solo turca, che il sogno che vi viene inculcato fin dal giardino d’infanzia di una purezza di sangue che vi vede eredi diretti dei conquistatori venuti dalle steppe sia un vano artificio retorico. Molto vi siete mescolati col sangue dei conquistati. Il numero delle bambine e delle giovani donne armene che vennero rapite e inserite in famiglie turche, togliendo loro nome, identità, religione, alfabeto e scrittura, costumi e contatti con altri sopravvissuti è rimasto ignoto per più di ottant’anni…».
Basta parole. Compratelo, regalatelo, leggetelo.
Fonte: Tu. Che potresti essermi sorella | Tempi.it