I giorni da Natale all’Epifania sono il peggiore dei periodi per chi è solo, soprattutto se è solo e vecchio. L’attrice Bette Davis diceva: “La vecchiaia non è un posto per femminucce” e l’attrice Gianna Coletti la cita per sottolineare che «è l’età più dura, oggi peggiorata dal fatto che non si ha il supporto della famiglia. Nella stragrande maggioranza, i vecchi sono soli».
Gianna Coletti sa bene di cosa parla, avendo vissuto con la madre novantenne gli ultimi tre anni dell’esistenza di lei, tre anni che hanno succhiato tutta la sua vita di figlia. Li ha raccontati nel libro “Mamma a carico” (Einaudi), che in un anno è diventato un titolo di successo attraverso il passaparola. Sono centoventi pagine toccanti e irresistibili: ci si identifica, ci si commuove, si ride. Merito dell’autrice, che intreccia tenerezza e ironia in una realtà che rappresenta l’affetto e le angosce evitando il patetico. Merito anche della madre Anna, una novantenne che aveva un taglio punk di capelli e portava sul naso grandi occhiali 3D, benché fosse cieca da anni. Non per posa, ma perché era una vera, forte personalità popolare. «Ribelle, generosa, egoista», la definisce Gianna.
“Mamma a carico” sta per essere tradotto in cinese: «In Cina hanno il problema dei vecchi soli e abbandonati«, spiega l’autrice, «e sperano che il libro rappresenti un incentivo a non abbandonarli, a tenerli in casa. Io l’ho fatto, nonostante mille difficoltà». Ma non sempre né dappertutto si promuove questo genere di sensibilità. Nel 2013, poco prima che Anna morisse, sulla storia tra lei novantenne e la figlia uscì il film «Tra cinque minuti in scena», diretto da Laura Chiossone. Ha vinto molti premi ma non è stato programmato spesso nelle sale. La vecchiaia, la morte fanno paura. «in televisione fanno servizi su vecchi che stanno sempre benissimo», sottolinea Gianna Coletti. La quale, nel libro, definisce spesso la madre “la mia vecchia”: «Io detesto certi eufemismi. Uno a 90 anni non è anziano, è vecchio. Me l’ha insegnato lei. Di sé stessa non diceva “Sono una non vedente”, ma “Ueh, sono guercia”. Lei ha avuto l’umorismo innato, sprezzante verso la malattia fino alla fine».
Sarà che Gianna chiama le cose con il loro nome e sa parlarne con partecipazione, fatto sta che nelle presentazioni in giro per l’Italia «si creano subito una grande complicità e sintonia. Ho incontrato pochi vecchi e invece molti figli di vecchi: tutti si riconoscono nel libro, ognuno viene a raccontarmi un episodio o un ricordo molto intimo, perché la cosa importante è parlarne. Vedi i tuoi perdere i pezzi uno dopo l’altro, magari quando hanno patologie serie ti tolgono l’anima e tu ti senti abbandonato da tutti: per questo auspico da parte delle istituzioni non solo un supporto pratico, ma anche psicologico per i familiari. Mi auguro che tutti possano seguire serenamente i propri vecchi, con il maggior aiuto possibile. Bisogna superare le paure, far loro sentire che si è lì, che sono amati. E’ importantissimo anche per noi».
Perché poi, alla fine arriva anche un grande insegnamento: «Mia madre ha lottato fino all’ultimo giorno per essere immortale. Ahimè, non le è riuscito», dice Gianna Coletti. «Mi ha insegnato l’amore per la vita: vedere in quelle condizioni una persona che lotta è qualcosa di commovente e a te dà una grande motivazione, perché vedi che ciò che fai non è sprecato. Con mia madre ho litigato fino alla fine, ma anche la lite l’ha mantenuta viva. Lei si sentiva bene quando litigava. Sarà che i vecchi malconci a me fanno una tenerezza incredibile. Sarà che penso che quello sia un passaggio difficilissimo e allora le persone care vanno accompagnate fino alla fine, e non è semplice». No, non lo è. Però Gianna in tre anni è riuscita a realizzare per Anna, con Anna, la meravigliosa frase di Marcello Marchesi: «Spero che la morte mi colga vivo».
FONTE: Famiglia Cristiana