Quando viveva a Yarmouk, campo profughi palestinese a sud di Damasco, Aeham Ahmad rispondeva ai sibili aspri delle bombe con le note dolci del pianoforte, che trasportava su un carretto lungo le strade disseminate di macerie. E si metteva a suonare proprio lì, in mezzo agli edifici sventrati, per lanciare un messaggio di speranza: “La musica dà conforto, coraggio e gioia anche dove terrore e angoscia oscurano il futuro” spiega. Prima la guerra civile, poi l’Isis, la Siria non trova pace dal 2011 e Ahmad – nato a Damasco nel 1988, musulmano – è diventato il simbolo della sua terra, oltre che una leggenda. Celebre in tutto il mondo come “il pianista di Yarmouk”, è rifugiato in Germania da circa un anno e mezzo; appena arrivato, ha ritirato a Bonn il Premio Beethoven per l’impegno a favore di “diritti umani, pace, integrazione e lotta alla fame” e ha cominciato a tenere concerti in giro per l’Europa (il tour italiano parte il 6 gennaio da Locorotondo, Bari).
La cosa più preziosa che ha lasciato a Yarmouk?
I miei genitori, spero che un giorno riescano a raggiungermi, e mio fratello, di cui abbiamo perso traccia oltre quattro anni fa. Ha 24 anni, faceva il falegname ed è in prigione senza motivo. Non era un combattente e non sappiamo né in quale carcere sia rinchiuso né se sia vivo.
Come si trova in Germania?
Bene, e da alcuni mesi ancora meglio: finalmente ho accanto mia moglie e i nostri due figli, di 2 e 4 anni. La loro assenza e l’angoscia del pericolo che correvano sono state fonti di estrema sofferenza.
Come ha superato il periodo difficile?
Grazie a un doppio sostegno: l’accoglienza solidale di questo Paese, al quale sono profondamente riconoscente per la dedizione alla causa dei rifugiati siriani, e l’affetto di molti amici che si erano già trasferiti qui. Il loro entusiasmo mi aveva spronato a seguirli e sono felice della scelta: la Germania mi ha salvato la vita.
Perché?
Dalla primavera del 2015 gli islamisti hanno proibito la musica.
Io devo esercitarmi almeno quattro ore al giorno e lo facevo nei quartieri più desolati di Yarmouk: era un modo per rasserenare il clima e tenere vivo il campo profughi, ridotto a poche migliaia di anime abbandonate a se stesse.
Se fossi rimasto a Yarmouk, mi avrebbero ucciso di sicuro, hanno persino bruciato il mio pianoforte di fronte a me.
Quando è nata la sua passione per la musica?
Da piccolo, l’ho ereditata da mio padre, cieco, che suona il violino nonostante la cecità: mi ha iscritto lui alla scuola di musica. Avevo 5 anni e a 23 mi sono diplomato al conservatorio di Damasco, poi sono diventato insegnante.
Da insegnante a stella internazionale: era questo il suo obiettivo?
No, non ho mai puntato al successo. Certo, la soddisfazione di pubblicare il primo album (Music for hope nel 2016, ndr) ed esibirmi davanti a platee da togliere il fiato – a Monaco di Baviera, per esempio, nel 2015 c’erano 45mila persone – è grandissima. Ma il mio unico sogno è sempre stato quello di dedicarmi ai ragazzi, trasmettere loro l’amore per le note e spiegare che dobbiamo sfruttare il potere eccezionale della musica.
Sarebbe?
È una straordinaria costruttrice di pace, perché con il suo linguaggio universale arriva diretta al cuore e abbatte le barriere. Non solo, secondo me è una medicina prodigiosa, per il corpo e lo spirito: sono convinto che 30 ore in ascolto di Bach curerebbero anche l’anima degli uomini più spietati.
Il suo compositore preferito?
Beethoven, folle come me e vero rivoluzionario: ha stravolto la tradizione classica e infranto ogni regola per creare lo stile romantico. Nel mio piccolo tentativo di portare la pace attraverso la musica mi ispiro a lui e nei momenti di smarrimento mi viene in soccorso la sua Sinfonia n. 9. L’Inno alla gioia mi carica di energia e fiducia.
A proposito di fiducia: crede che la guerra in Siria terminerà a breve?
Temo di no: alcuni gruppi stanno ancora combattendo. A Damasco non c’è acqua e io sono preoccupatissimo per il mio popolo che è allo stremo delle forze, vittima innocente degli interessi economici: come sempre,
la guerra è una questione di denaro, di affari tra petrolio e armi. Come sempre, la religione non c’entra: musulmani e cristiani convivono in armonia.
Ora, invece, convivono nel terrore, costretti a subire violenza e oppressione.
Se domani tornasse la pace, cosa farebbe?
Partirei subito. Con gioia immensa, ricomincerei a insegnare musica e a preparare falafel. Sì, oltre a suonare, prima di andarmene distribuivo polpette per strada: i miei fratelli morivano di fame e adesso li troverei nelle stesse condizioni drammatiche. Come potrei non darmi da fare per aiutarli a sopravvivere?
Fonte: AgenSir.it