I delitti nel ferrarese e noi
— 30 Gennaio 2017 — pubblicato da Redazione. —Corriere della Sera, “I no impossibili dei genitori ai loro ragazzi”, di Antonio Polito, 14 gennaio
«Si è aperto un vuoto di tradizione, insomma; parola la cui etimologia viene per l’appunto dal latino «tradere», trasmettere. […] Al centro di questo mondo c’è una cultura del narcisismo, per usare l’espressione resa celebre da Christopher Lasch. Lo spirito del tempo ripete come un mantra slogan da tv del pomeriggio: «sii te stesso», «realizza tutti i tuoi sogni», «non farti condizionare da niente e nessuno», «puoi avere tutto, se solo lo vuoi». Più di un’educazione sentimentale è un’educazione al sentimentalismo. Al culto del sé, del successo facile, e del corpo come via al successo, sul modello dei calciatori e delle stelline. […] Nessun rifiuto, nessun limite, nessun «no» che venga detto in famiglia trova una sua legittimazione nel mondo di fuori. Il fallimento educativo che ne consegue è una delle cause, non una conseguenza, della crisi italiana. Ne è una prova il fatto che a parlare del disagio giovanile oggi siano chiamati solo gli psicologi e gli psicanalisti, e non gli educatori: come se il problema fosse nella psiche dell’individuo e non nella cultura della nostra società, come se la risposta andasse cercata in Freud e non in Maria Montessori o in don Bosco. […] Chiunque abbia figli sa quanto sia dolorosa questa tensione. Padri e madri non sanno che fare: fidarsi dei figli e del loro senso di responsabilità, rischiando di esserne traditi? O trasformarsi in occhiuti sorveglianti, rischiando di esserne odiati? […] Ci vorrebbe una santa alleanza tra genitori, insegnanti, media, intellettuali, idoli rock, stelle dello sport, per riprendere come emergenza nazionale il tema dell’educazione, e sottoporre a una critica di massa la cultura del narcisismo»
La Repubblica, “Quei figli senza senso di colpa”, di Massimo Recalcati, 13 gennaio
«Quello che più colpisce dell’atroce delitto di Codigoro è l’assenza di senso di colpa nei due giovanissimi assassini. Del figlio innanzitutto, ancora più del suo sanguinario complice. La motivazione del suo gesto appare sconcertante nella sua semplicità: «Non sopportavo più le loro prediche», «volevo liberarmene». […] Nel delitto di Codigoro, in primo piano non c’è alcun conflitto tra Legge e desiderio e, di conseguenza, nessuna esperienza autentica della colpa. La fredda frivolezza con la quale vengono messi a morte i genitori non sembra avere più alcun rapporto con il senso della tragedia. […] “Onora tuo padre e tua madre” è uno tra i comandamenti biblici più belli. Portare “onore” ai propri genitori – non malgrado siano imperfetti e vulnerabili, ma proprio perché essi sono tali – significa riconoscere il debito simbolico grazie al quale la vita sorge e iscrivere la propria vita nel patto tra le generazioni perché nessuna vita può farsi da se stessa. La bellezza di questo comandamento è stata oltraggiata da questo figlio che mostra di non saper sopportare la minima frustrazione. Ma questo figlio è anche un nostro figlio: la liberazione da ogni senso di colpa viene infatti salutata dal neo-libertinismo del nostro tempo come un principio irrinunciabile trascurando il fatto che esso non è di per sé una malattia, ma il fondamento di ogni possibile incorporazione soggettiva della Legge. […] Riconoscere la propria colpa è infatti il primo indispensabile passo affinché la Legge possa iscriversi nel cuore dell’uomo»
Corriere della Sera, “La Playstation il bar gli spinelli. I giorni vuoti di Manuel e Riccardo”, di Giusi Fasano, 13 gennaio
«Ogni giornata una fotocopia dell’altra. Ogni sera il solito giro. E all’orizzonte nemmeno l’ombra di un desiderio, di un sogno da coltivare. Andava così, la vita sempre uguale a sé stessa di Riccardo e Manuel […] La domanda è: di cosa riempivano i loro giorni? Di videogiochi con la Playstation e Xbox, per esempio, da sempre il loro massimo divertimento. Manuel andava a scuola un giorno sì e molti no, Riccardo frequentava un po’ di più ma con gli stessi risultati disastrosi dell’amico d’infanzia. E quando saltavano le lezioni era sottinteso che la mattina sarebbe passata davanti al videogioco di turno. […] I genitori dell’uno e dell’altro hanno provato mille e mille volte a rimediare al vuoto che vedevano crescere nei giorni dei loro figli. E ci hanno provato gli insegnanti a scuola. Dopo ogni sgridata sembrava potesse cambiare qualcosa ma l’illusione durava lo spazio di un giorno. Il tempo di tornare nel silenzio e nella solitudine delle proprie stanze, davanti alla solita playstation»
La Stampa, “Quella furia che incarna il Male e la vergogna lucida del Killer” di Ferdinando Camon, 12 gennaio
«C’è un momento, dopo, in cui pare che i due ragazzi, o uno dei due, entri in crisi, ed è quando «lavorano» sui corpi dei genitori uccisi. Li devono portar via, e per far questo li vedono in faccia. È in quel momento, a sentire le confessioni degli assassini, che hanno l’idea di coprire le facce dei genitori morti con sacchetti di plastica: per non vederli in faccia. Così dice uno dei due ragazzi, non so quale, se il figlio o l’amico del figlio. Preferirei che fosse il figlio, perché é in questo dettaglio dell’operazione, coprire la faccia dei morti, ci vedo un fioco, inerte barlume di vergogna, che domani può – è questo l’augurio – diventare rimorso. Perciò mi permetto di correggere la confessione del ragazzo, chiunque sia. Non voleva dire che han coperto le facce «per non vederle», ma «per non essere visti». Non era vergogna per quel che facevano, ma terrore per quel che poteva poi capitargli».
COMMENTO
L’orrore dell’omicidio di Codigoro, nel ferrarese, ha scosso profondamente tutti. Giornalisti, psicologi, vescovi sono intervenuti nel dibattito dei giorni seguenti, per tentare di confrontarsi con il mistero terribile dell’accaduto: com’è possibile che un figlio decida di uccidere i genitori? Che cosa ha portato i due ragazzi, uno di sedici e l’altro di diciassette anni, a concepire e realizzare un gesto così inumano? Il comportamento di Manuel e Riccardo presenta certamente profili devianti e “psichiatrici”. Ma questa degenerazione patologica o folle non annulla i contorni del contesto di vita in cui pure è dovuta maturare e poi esplodere: una solitudine divorante, un vuoto, un baratro di senso, che gli spinelli e i videogiochi non potevano riempire. «Ogni giornata una fotocopia dell’altra. Ogni sera il solito giro. E all’orizzonte nemmeno l’ombra di un desiderio, di un sogno da coltivare», come scrive Giusi Fasano. Questo retroterra di noia profonda, di mancanza assoluta di significato è l’aspetto dell’accaduto che interroga ciascuno di noi e aggancia la vita di quei ragazzi a quella di moltissimi altri.
È su questo punto che l’analisi di Antonio Polito si concentra. Il collasso dei rapporti educativi – l’incapacità di trasmettere ai propri figli un significato all’altezza dell’esistenza – e la cultura del narcisismo smerciata in ogni dove spalancano le porte a una solitudine alienante, a una sorta di autismo di massa. Proposta? Istituire, scrive Polito, «una santa alleanza tra genitori, insegnanti, media, intellettuali, idoli rock, stelle dello sport per riprendere come esigenza nazionale il tema della educazione». È possibile? Già il riconoscere il tema dell’educazione come “esigenza nazionale” non è comunque cosa da poco.
Anche Massimo Recalcati riflette sul rapporto tra le generazioni, chiamando in gioco la figura di Edipo: «Ogni figlio vuole liberarsi di suo padre (…) per realizzare il proprio desiderio». Se tuttavia le colpe del personaggio tragico aprono in lui una lacerazione straziante, nell’omicidio di Codigoro domina invece «la fredda frivolezza con cui vengono messi a morte i genitori», una inconsapevolezza nella quale non trova spazio alcuna esperienza della colpa. Si evidenzia qui un altro tratto della nostra cultura: «La liberazione da ogni senso di colpa viene salutata dal neo-libertinismo del nostro tempo come un principio irrinunciabile, trascurando il fatto che (…) riconoscere la propria colpa è il primo indispensabile passo affinché la Legge possa iscriversi nel cuore dell’uomo». In un mondo che celebra l’equivalenza di volere e potere si è introdotta una sconnessione tra libertà e consapevolezza, tanto che i giovani assassini hanno eliminato fisicamente «l’insopportabile presenza dei loro genitori e delle loro prediche», per «raggiungere l’obiettivo di una libertà spensierata».
Come far fronte alla “esigenza nazionale” dell’educazione? Che cosa permette a un giovane di riconoscere la propria colpa? Forse si potrebbe riassumere il problema con un’altra domanda: di che cosa hanno bisogno i bambini e i giovani di ogni estrazione sociale e provenienza geografica per crescere e diventare uomini – uomini capaci di costruire e condividere –? Non innanzitutto di cose, ma di cura, di attenzione, di riconoscimento, di stima, il che significa di adulti disponibili a stare in un rapporto consapevole, affettivo e fedele con loro. Il rapporto non può essere sostituito da niente. Al suo livello più profondo, l’educazione non è questione di “sistemi”, ma di presenza. Nel vuoto di senso di tanti giovani si ode l’eco di un vuoto di adulti, vale a dire di testimoni credibili di una vita che valga la pena di essere vissuta, rispetto a cui si possa nutrire affetto, ammirazione, e tradendo i quali si possa provare dolore e anche senso di colpa, nelle cui orme venga comunque voglia di camminare. Di adulti simili non ce ne sono molti, forse, ma ce ne sono. Che si riconoscano e si alleino fra loro, dai rispettivi fronti e secondo i diversi compiti, può forse apparire ovvio, ma più segni fanno pensare che oggi non è superfluo dirselo e deciderlo.
Fonte: Tracce.it