Ma non meno provocatorio è il libro del teologo protestante Harvey Cox, The Market as God (Il mercato come dio): «Uno degli aspetti più pericolosi della mentalità corrente – spiega Stefano Zamagni – sta proprio nella trasformazione del mercato finanziario in una divinità imperscrutabile, alla cui volontà bisogna sempre e comunque assoggettarsi. Mercatus vult, si dice: lo vuole il mercato. Ma è un errore, perché solo la persona, in quanto portatrice di libertà, è in grado di esprimere una volontà propria. C’è bisogno di una prospettiva diversa, di una visione non pessimistica della natura umana».
Questa visione Zamagni l’ha individuata all’inizio degli anni Novanta, quando si è imbattuto nelle Lezioni di economia civile dell’abate Antonio Genovesi, che a metà del XVIII secolo fu il primo titolare al mondo di una cattedra di economia. «Pur essendomi laureato in Cattolica – racconta Zamagni –, non avevo mai avuto modo di studiare la corrente di pensiero che da Genovesi si è sviluppata e che ha, tra l’altro, molte consonanze con la Dottrina sociale della Chiesa. Ho cominciato ad approfondire, a scriverne e da lì è nata la vicenda dell’odierna Economia civile».
Tradizione recente, dunque, ma straordinariamente vivace, nella quale il lavoro di Zamagni, professore di Economia politica all’Università di Bologna, si intreccia con quello di Luigino Bruni, docente alla Lumsa e figura di riferimento per l’Economia di comunione sviluppatesi nell’ambito dell’esperienza dei Focolari. E proprio a Loppiano, capitale spirituale del movimento fondato da Chiara Lubich, ha sede la Scuola di economia civile (Sec) avviata nel 2013 da Bruni e Zamagni per permettere che questa rivoluzione gentile non si esaurisca nell’ambito, pure indispensabile, della ricerca, ma trovi attuazioni concrete, nelle aziende così come nell’insegnamento. «I risultati di questa prima fase hanno ampiamente superato le aspettative – afferma il professore –, adesso c’è da sviluppare la seconda, che permetta di affrontare in modo adeguato le sfide del presente».
La Brexit, la minaccia dell’isolazionismo statunitense: in un contesto simile come può trovare spazio un’economia che privilegi la felicità al profitto?
Al contrario, è proprio la situazione sfavorevole a rendere impellente la riscoperta dell’Economia civile – risponde Zamagni –. I segnali non mancano, anche in sede internazionale. Penso all’Idi, l’Indice di sviluppo inclusivo del quale si è parlato in occasione del Forum di Davos. La richiesta di strumenti di misurazione alternativi e complementari rispetto al Pil è stata avanzata da tempo dall’Economia civile, come dimostra in Italia l’impegno di Leonardo Becchetti per l’adozione del Bes, l’indicatore di benessere equo e sostenibile.
Quindi qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta?
Molto lentamente, ma pare di sì. Resta l’ostacolo principale, che è di natura culturale, se non addirittura psicologica.
A che cosa si riferisce?
Quella che solitamente passa per l’unica economia possibile, e che è invece la versione estrema dell’economia politica, è affetta da una sindrome molto simile alla cattiva coscienza. Al principio di negazione, se preferisce. Tende a prescindere dalla realtà, riducendola al mero calcolo matematico. Quello che non rientra nel quadro predefinito viene ignorato, come se non esistesse. E guardi che non mi riferisco a fenomeni marginali.
Di che cosa stiamo parlando, allora?
Dalla globalizzazione, tanto per cominciare, un processo iniziato alla fine degli anni Settanta e del quale, per troppo tempo, si sono esaltati i vantaggi e sottovalutati gli svantaggi. Eppure già nell’Ottocento John Stuart Mill ci aveva messi sull’avviso: i gains of trade, i profitti del commercio, vanno sempre di pari passo con i pains from trade, le sofferenze che il commercio stesso provoca. Abbacinati dal successo iniziale della globalizzazione, ci si è accorti troppo tardi di come i costi sociali avessero ormai superato
la normale soglia di tolleranza. A questo punto il paradigma economico predominante non ha potuto fare altro che rinchiudersi a riccio, instaurando gli atteggiamenti protezionistici e isolazionistici che in questo momento, lo sappiamo, godono di grande popolarità a Londra come a Washington. Nella sua drammaticità, è un passaggio che si rivela molto utile per portare alla luce il limite dell’economia politica così come è attualmente strutturata. Mi riferisco, ancora una volta, a un limite culturale, non tecnico. In questione non sono le capacità di calcolo matematico che il modello economico corrente riesce a dispiegare, ma le premesse antropologiche su cui il modello si fonda. L’immagine dell’homo oeconomicus interessato unicamente al profitto non è più accettabile, anche perché non più produttiva, basata com’è su un’idea di conflitto distruttiva e non generativa. I primi a capirlo sono gli imprenditori, che già pagano le conseguenze dell’implosione di un modello tanto pessimista.
Sta dicendo che la crisi non è finita?
La vera crisi non è quella che si manifesta in Borsa, ma quella che sta portando alla separazione sempre più profonda tra il capitalismo di mercato e la democrazia. L’esempio di scuola è ormai quello della Cina, ma anche l’Occidente non è esente dai rischi impliciti in una concezione che considera la democrazia non più necessaria allo sviluppo economico, specie nel momento in cui un Paese di tradizione democratica si trova a competere con Paesi nei quali la democrazia non è mai esistita. Oltre ad attecchire in assenza di democrazia, insomma, il capitalismo può ridurre la democrazia nei contesti in cui questa già esiste. Una deriva dalla quale l’Italia non è affatto al riparo. Li avrà sentiti anche lei, no?, i politici che parlano di ‘democrazia efficiente’. Ma questo è un criterio che si applica ai mercati. La democrazia, semmai, è chiamata a essere efficace nella sua inclusività. Prende in carico tutti, non i migliori.
A proposito dell’Italia: quali sono le prospettive del sistema dei distretti, della prossimità territoriale, del localismo bancario?
Il modello è in affanno, impossibile nasconderlo. Basti pensare alla disinvoltura con cui i grandi gruppi internazionali, francesi in testa, acquisiscono porzioni sempre maggiori del nostro patrimonio industriale. Anche in assenza di riferimenti diretti alla lezione di Genovesi e dei suoi continuatori, nella cultura imprenditoriale e finanziaria del nostro Paese ci sono sempre state componenti ben riconoscibili dell’Economia sociale e delle prassi che ne derivano. Aver trascurato questa radice, adeguandosi a un modello di mera efficienza mercatista, è stato il nostro errore più grave, che ha avuto ripercussioni sullo stesso sistema bancario. Nell’immediato dopoguerra, del resto, l’idea che una banca debba mirare non al profitto, ma allo sviluppo del territorio era stata espressa con convinzione da Luigi Einaudi, in perfetta coerenza con la sua formazione di economista liberale. Ma il monito è rimasto inascoltato. Ci si è adeguati a una concezione diametralmente opposta della banca, di origine anglosassone, preoccupata più dei profitti dei banchieri che dei vantaggi per il territorio. Questo non significa che la cultura del distretto sia destinata a tramontare. Di sicuro, però, deve essere ripensata in termini innovativi. Come il resto dell’economia, si capisce.
La Chiesa può dare un contributo?
Il prestigio di papa Francesco è indiscutibile, così come è innegabile la chiarezza delle sue posizioni in materia economica, con la condanna esplicita degli eccessi del capitalismo e il richiamo ad agire contro ogni forma di esclusione. Temi e in alcuni casi perfino espressioni già caratteristici dell’Economia civile e presenti da tempo nell’insegnamento della Chiesa. Mi viene in mente il paragrafo 67 della Gaudium et spes, laddove i padri conciliari sottolineano la necessità di ‘adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita’. Ma penso anche all’impianto che sorregge la Caritas in veritate di Benedetto XVI, penso alla condanna delle ‘strutture di peccato’ in campo economico che dal magistero di Paolo VI passa in quello di Giovanni Paolo II per mediazione della Popolorum progressio, la grande enciclica sociale di cui cade nel 2017 il cinquantesimo anniversario’.
Riuscirebbe a definire l’Economia civile in due parole?
Anche in una: il sostantivo civitas, ‘cittadinanza, comunità’, da cui discende l’aggettivo civilis. ‘Politico’, invece, viene dal greco polis, che ha un’altra accezione. Le polis antiche fondavano colonie che restavano loro sottomesse, la civitas romana si espandeva estendendo i diritti di cittadinanza ai popoli conquistati. Che non erano più sudditi, ma diventavano parte di una comunità. Questo può fare l’Economia civile: liberare l’economia, in modo che nessuno sia più schiavo.
Fonte: Avvenire.it