Ci sono esperienze nella vita che cambiano radicalmente la nostra prospettiva. Quelle che prima consideravamo granitiche certezze, possono sciogliersi come neve dinanzi all’insorgere di una malattia. È ciò che è successo a Sylvie Menard, classe ’47, ricercatrice oncologica francese trapiantata in Italia. Da tre anni è in pensione, dopo aver lavorato all’Istituto dei tumori di Milano ed esser stata direttrice del Dipartimento di oncologia sperimentale.
Allieva del prof. Umberto Veronesi, era favorevole all’eutanasia, poiché era convinta che la vita, in determinate condizioni debilitanti, non fosse degna di essere vissuta. “Poi improvvisamente ho incontrato la morte, ci siamo guardate negli occhi e solo allora ho capito quanto prezioso fosse ogni singolo istante della vita”, rivela a In Terris.
La storia
“Era la fine degli anni ’70, io ero una trentenne, consideravo il prof. Veronesi un maestro dal punto di vista scientifico e filosofico – racconta – e quando lui suggerì l’introduzione in ambito legislativo del testamento biologico e dell’eutanasia, lo seguii in modo convinto”.
Il “caso Englaro” e le proposte di legge concrete sul fine vita erano lungi dall’arrivare. All’epoca in Italia il dibattito su questi temi era ad esclusivo appannaggio di alcuni settori del mondo scientifico contagiati dall’individualismo esistenziale del ‘68. “Ero del parere che in caso di menomazioni, non valesse la pena vivere, dunque ero favorevole all’eutanasia”, racconta. Del resto – prosegue – “ero giovane, non avevo ancora riflettuto su cosa fosse realmente la morte”. “Credevo – taglia corto – non dovesse mai riguardare me”.
Cambio di prospettiva
Poi avvenne il classico fatto che non t’aspetti. Nel 2004, a seguito di un malore, le venne diagnosticato un tumore inguaribile. “L’esperienza di malattia – spiega – d’un colpo riporta il paziente sulla terra, la morte non è più virtuale ma una realtà che può subentrare da un momento all’altro. Ecco allora che cambia tutto”. È in quel momento che la dott.ssa Menard comprende che “la vita non è una risorsa illimitata, che si può anche sprecare, ma è un bene prezioso”. Dopo tante sofferenze dovute alla malattia, le sue convinzioni si sono capovolte.“La vita è un dono meraviglioso nonostante gli atroci dolori, i trapianti”, afferma. E ringrazia le terapie che anni prima, da sana, avrebbe rifiutato a priori, perché “mi hanno concesso di essere qui oggi, di continuare a vivere e di conoscere i miei nipoti”.
Il dibattito
La dott.ssa Menard è stata ieri mattina alla Camera dei Deputati, come relatrice ad una conferenza stampa organizzata dall’Associazione ProVita sulla legge sul testamento biologico, all’esame del Parlamento in queste settimane. Il tema sta suscitando un vibrante dibattito, con molte critiche: ProVita sta raccogliendo firme per tentare di frenare l’approvazione del testo.
“Direi anzitutto – osserva la Menard – che è una legge completamente inutile”. L’oncologa rileva infatti che “una persona sana, che non ha mai visto negli occhi la morte, non può sapere come reagirà in caso di malattia”. A suo avviso “nessun malato, prima di esserlo, avrebbe auspicato per se stesso di ritrovarsi su una sedia a rotelle o con il cervello annebbiato”. Eppure – prosegue – “molti malati hanno una straordinaria voglia di vivere, nella situazione in cui si trovano”.
“Io stessa, oggi, apprezzo la vita molto più di prima – afferma -. La apprezzo in ogni sua piccola sfumatura, in ogni dettaglio, in ogni momento vissuto in più, perché so che da un momento all’altro potrebbe arrivare la morte”. Pertanto non ha senso “firmare da sani un testamento biologico con le disposizioni per i medici laddove ci si trovasse menomati”.
Dignità
Secondo lei, “da questo testo di legge bisognerebbe togliere la parola ‘dignità’ e sostituirla con ‘orgoglio’”. E affida ad una domanda retorica la spiegazione di questo concetto: “Cos’hanno di più dignitoso le persone sane rispetto ai malati?”. “Non esiste – risponde – nessuna malattia che porta una persona ad essere indegna”. Anzi, è proprio nella malattia, talvolta, che la dignità umana e l’amore per il prossimo conoscono la loro massima espressione. Lo testimoniano tutti quei malati gravi e le loro famiglie che portano avanti con perseveranza la battaglia per la vita, animati dalla convinzione che la cura successiva sia quella giusta. La dott.ssa Menard conferma che “sono loro i primi a far richiesta di non sospendere le terapie”, a tener viva la speranza. Perché “nessuno accetta di sentirsi dire che non c’è più nulla da fare”. L’eutanasia – conclude – “la vogliono i sani, di certo non i malati e i loro familiari”
Fonte: InTerris.it
Approfondimenti:
Sul fine vita ora è rottura: la legge va verso l’aula – Avvenire.it