A rimanere negli occhi al termine della due giorni di “Parole Ostili”, la manifestazione organizzata a Trieste per confrontarsi sullo stile con cui stare in Rete contrastando la violenza dei linguaggi, è la graduatoria stilata da Swg sulle categorie più colpite dall’odio online: migranti (32 per cento), politici (30 per conto), gay (30 per cento), donne (27 per cento), minoranze (21 per cento), musulmani (15 cento), in un momento storico in cui anche Internet contribuisce a diffondere la paura per ciò che percepiamo come diverso. Con conseguenze non proprio trascurabili se pensiamo all’inquinamento del dibattito pubblico che ne deriva, alla formazione delle opinioni e al diffondersi dell’odio. Verso le donne, con la presidente della Camera Laura Boldrini che non ha mancato di ricordare che «non si possono fare passi indietro rispetto alle battaglie fatte dalle donne in questi anni per colpa di ciò che accade su Internet. Le ragazze non devono arrivare a doversi nascondere, ad aver paura della Rete».
Odio che trova nuovi spazi nelle parole dei più piccoli, con un’analisi che ha evidenziato l’alto tasso di parolacce nei commenti inviati agli youtuber seguiti dai 5-13enni. Nella comunicazione politica, dove l’avversario diventa (ma non dovrebbe) un nemico. Può essere ostile non solo la parola, ma anche il rimanere zitti di chi assiste e non fa nulla: è importante ripartire anche da qui, insegnare ai ragazzi a stigmatizzare certe forme di ostilità, online e offline, a non girare le spalle, a non andare dietro alla violenza, abituandoli (e abituandoci) al coraggioso esercizio della controparola, rispondendo all’odio e difendendo chi ne è vittima.
E ancora, l’odio senza volto o nome: problema che, secondo Enrico Mentana, andrebbe superato eliminando l’anonimato in Rete. La questione è delicata, essendo l’identità celata un fattore che permette a internauti di molti Paesi di esprimere dissenso, laddove non si potrebbe. Voci controverse e irriverenti verso il potere delle maggioranza hanno potuto solo così farsi sentire, senza temere ritorsioni. Ma anche l’odio che si insinua grazie alle “fake news” (le cosiddette bufale), categoria per cui si sta cercando ancora una definizione precisa e che è diventata oggetto di una proposta di legge presentata in Senato.
L’evento triestino è stato solo il punto di partenza di una riflessione che ci interroga tutti, cittadini e professionisti della comunicazione, su come far sì che la misura del valore di una notizia torni a essere la veridicità e non la viralità, sull’importanza di riappropriarsi della responsabilità della verifica delle informazioni senza delegare ai lettori il giudizio della loro credibilità, ma anche sullo ristabilire un confine tra spettacolarizzazione, sensazionalismo ed etica dell’informazione. Ne è venuto fuori, oltre a un costruttivo dialogo e a una profonda analisi, il decalogo per (provare a) ripulire il web dai comportamenti che hanno contribuito ad alzare troppo i toni.
Fonte: Corriere.it