Giacomo Stella e una scuola buona per tutti
A scuola non stanno male solo gli scolari o gli studenti. Ci sono anche molti insegnanti che stanno male, hanno gli stessi sintomi dei loro studenti: vanno a scuola malvolentieri, restano spesso a casa, sono frustrati e a volte si sentono perseguitati dal dirigente o dalle famiglie.
La scuola è diventata un contenitore del crescente disagio per tutti: allievi, insegnanti e famiglie. Perché succede questo? Me lo sono chiesto in tanti anni di lavoro con i ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento, a contatto diretto con i loro insegnanti e genitori.
La risposta è che la scuola non risponde più ai bisogni complessi della nostra società. E’ performativa e si basa su una didattica troppo spesso inutile che non favorisce la costruzione dei saperi e delle abilità non tenendo conto dei tempi e delle modalità di apprendimento degli studenti. Tranne rari esempi di innovazione, la scuola italiana non ha cambiato la sua didattica per renderla più inclusiva. E soprattutto non ha cambiato il suo approccio all’apprendimento basato sul principio di uguaglianza invece che sul principio di equità.
Il principio di uguaglianza è un mantra della scuola e un imperativo dei docenti: non posso fare eccezione per nessuno, devo essere imparziale, il compito della scuola è quello di giudicare tutti con lo stesso metro. Il principio di uguaglianza è complementare al principio di prestazione: viene determinato il livello richiesto, di solito tarato sui migliori e sancisce che tutti debbono avere gli stessi diritti e gli stessi doveri per raggiungerlo.
Ma se invece, al contrario, ci facessimo guidare dal principio di equità? Ve la immaginate una scuola in cui tutti possono usare gli strumenti che considerano più adatti a loro per raggiungere lo scopo dell’apprendimento? Niente più omologazione: ci sarebbe chi scrive in corsivo, chi in stampato, chi usa il computer, chi la calcolatrice, la tavola pitagorica, chi si diverte a calcolare a mente. L’importante è rendere l’apprendimento una esperienza piacevole, persino divertente.
E il voto? Si commisura all’impegno. Niente più necessità di diagnosi, niente etichette (Bes, Dsa), i ragazzi risulterebbero tutti uguali per i docenti che ne asseconderebbero i bisogni. Bisogna trasformare la classe in una comunità di discussione e di confronto in cui il docente non è più un oracolo che fornisce risposte o soluzioni, ma indirizza gli allievi alla ricerca individuale e collettiva del sapere.
È una rivoluzione, lo so. Ma è meno complicata di quel che sembra, basta operare quotidianamente piccole scelte coraggiose. Quali?
Niente più compiti a casa, un sistema di valutazione che cancelli la paura di sbagliare, lavoro in gruppo, diffusione di un modello di conoscenza con l’aiuto dell’informatica. E poi ancora, eliminiamo la cattedra come monumento immobile davanti allo schieramento dei banchi e diamo a bambini e ragazzi gli strumenti per ragionare e affrontare il mondo che li aspetta.
Di questo e molto altro parleremo a Napoli con tantissimi esperti di fama internazionale e con Philip Schultz, premio Pulitzer per la poesia 2008, che ci aiuterà a capire la dislessia parlandoci di sé de di suo figlio Eli. Parteciperanno più di 500 operatori tra clinici ed insegnanti che vogliono saperne sempre di più. E una grande partecipazione da parte del mondo della scuola è la nostra vittoria più grande. Quindi ci auguriamo che ci siano ancora tante iscrizioni e che la voglia trasformare la scuola nel posto migliore dove stare, sia contagiosa.
Fonte: FamigliaCristiana.it