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Mia figlia è nata con il timer – L’eutanasia e la debolezza necessaria

Mia figlia è nata con il timer. Sì è vero, tutti siamo a timer, ma a lei sono state date poche cariche. Abbandonata in ospedale perché la sua microcefalia faceva paura, sapendo che avrebbe imposto sacrifici ingestibili e notti in bianco a misurare la temperatura o ad arrestare le crisi epilettiche con il valium rettale, l’abbiamo riconosciuta, prima ancora di incontrarla, dal pianto stridulo e insistente che dominava nella terapia intensiva neonatale. Una diagnosi pesante e insopportabile gravava già sulle sue spalle: una manciata di giorni, al massimo tre anni e poi avrebbe dovuto soccombere alla fatica intollerabile della vita. Era minuscola; una riproduzione in miniatura di un neonato, tant’è che bastava la mia mano a raccoglierla tutta. Con la mano tra le dita della mia sposa (che infantili! Dopo vent’anni di matrimonio ancora con queste sdolcinatezze del tenersi per mano…) avevamo scelto di affacciarci sulla culla di quell’errore della genetica facendoci determinare dall’amore a priori, inforcando, cioè, le lenti dell’amore incondizionato. Avevamo preteso di amare “a prescindere”, perché eravamo certi che solo in quel modo l’avremmo potuta guardare con gli occhi giusti.
Normalmente si pensa che prima sia necessario conoscere e poi amare. Invece noi volevamo sovvertire le regole dei luoghi comuni e decidere di conoscere quella creatura così piena di imprecisioni e di difetti congeniti, passando prima dall’amore gratuito per non permettere al nostro sguardo di arrestarsi, atterrito, agli handicap evidentissimi del suo corpo e provare a scorgere nel vespaio di quell’interminabile elenco di malattie impronunciabili, semmai potesse esserci un barlume di bellezza.
Di più! Abbiamo trovato di più! Abbiamo visto una meraviglia della natura, un vero capolavoro di perfezione che mai avremmo potuto scorgere se avessimo preteso di conoscerla senza amarla a priori. Una debolezza sconvolgente adagiata nella culla provvisoria e asettica di una terapia intensiva. Una carne viva e fragile che trasudava tenerezza ineffabile, appellandosi non solo alla mia Fede, non solo alla mia bontà d’animo, ma più veementemente alla mia umanità. La fragilità dei piccoli interpella la nostra umanità. La debolezza pretende il soccorso dei forti, la fragilità dei poveri invoca la condivisione dell’uomo.
Come resistere? Perché opporsi e sfidare una creatura piccolissima con argomentazioni accademiche o pensieri di massa o perbenismi da salotto? Quante teorie ben argomentate e pensieri geniali sono stati sfoderati negli ultimi mesi sul tema del fine vita; quanta accademia sulla pelle debilitata di creature imperfette, già pronte al dialogo ultimo della loro esistenza, protese a scrutare le cose nuove che già attendono non appena sarà espirato l’ultimo soffio! Ma rabbrividisco a così tanta distanza della politica e degli intellettuali dalla carne viva degli scarti della società. Non c’è politica se manca la condivisione con gli ultimi. Non c’è cultura che non sappia sporcarsi la camicia con il sudore dei poveri.
La carne indifesa di quella stortura della biologia ha ripescato in me la necessità della più profonda umanità perché solo legandomi alla sua debolezza io potessi essere più vero e più uomo; e solo allacciando la sua esile vita alla mia storia di sposo e di padre, lei potesse recuperare la vera dignità di ogni creatura: l’essere amata.
Ma quale grande confusione sull’eutanasia! C’è qualcuno che vorrebbe fare a meno della debolezza, come se la nostra vita potesse essere più civile e dignitosa al prezzo di diventare più perfetta. L’assurda pretesa di spolverare la fragilità umana come fosse un residuo inutile della comunità, o ancor peggio come se non appartenesse alle categorie dell’umanità, fa accapponare la pelle come i discorsi di selezione genetica che hanno inquinato tratti recenti della nostra storia.
Ma non c’è imperfezione nella natura di quella vita piccolissima, nata con il timer di un pugno di giorni, pur con l’interminabile elenco delle imperfezioni cliniche. La sua vita è perfetta perché capace di essere amata, capace di convertire anche i cuori più duri non appena contagiati dal candore della sua debolezza e dall’innocenza della sua carne. I nostri corpi non sono una cavia di un’indagine clinica e non si può misurare la dignità della vita solo con la misura della salute dei nostri organi.
La debolezza è necessaria. Non potremmo parlare di umanità se la debolezza umana fosse solo un batterio da abbattere o un errore della natura. La vera umanità si impasta con quella carne fragile adagiata nella culla provvisoria della terapia intensiva. Si può essere umani solo se familiari della debolezza. Senza debolezza siamo inumani. Il mio stesso Dio è Onnipotente perché “Onnidebole”; Egli è davvero potente perché si è fatto veramente debole fino alla croce, all’ingiuria, agli sputi immeritati, impastandosi di carne e di Dio, di fragilità e di forza.
La vera umanità ci plasma con l’arte della misericordia. Sì, l’umanità si definisce tale solo se ancora ci pone di fronte alla miseria umana con le categorie della misericordia. Ancora oggi si ripete l’incontro della prostituta con il suo Cristo che non la giudica: la miseria e la Misericordia sono l’uno di fronte all’altra. Così è l’umanità: di fronte alla miseria si può rispondere solo con la misericordia… Non certo con finissimi discorsi di chi non ha ancora sporcato la camicia con la miseria dell’umanità.
Così di fronte a mia figlia, abbandonata su una culla provvisoria e che ora invece riposa nel suo lettino a fianco al nostro lettone, mentre ancora stringo le dita della mia sposa, riconosco che la sua miseria trova vita solo nella mia misericordia…ma vi confesso che spesso sono certo di assistere ad un’inversione di parti: io sono la miseria, e il suo piccolo cuore la Misericordia.

Fonte:  Luca RussoAvvenire.it

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