La nemesi del fondamentalismo libertario. Reportage dall’Olanda (VIDEO)
— 18 Aprile 2017 — pubblicato da Redazione. —Atea e laica, multiculturale e indifesa. E piena di paradossi. Viaggio nella nazione che vuole l’anestesia per i crostacei e che sta trasformando le chiese in piste da skateboar
Il rock metallico sovrasta il rumore delle rotelle in piena velocità sull’impiantito di legno. Solo il tonfo dello skateboard che ricade al suolo dopo il fulmineo volo si distingue dal sottofondo musicale. Le linee ondulate orizzontali di sezioni cilindriche e di piani inclinati combinano strane armonie con gli archi ad ogiva sui lati della navata centrale e con quelli che si succedono prospetticamente verso il fondo dell’abside. Il bianco e beige delle attrezzature stridono col rosso cupo dei mattoni a vista e col mosaico ingrigito dell’abside: lo Spirito Santo che procede dal Figlio sulla croce e discende sulla Madonna e sugli apostoli. Sulla parete opposta un telone dipinto a olio viola e blu reca i tratti di un’ingenua figura demoniaca. Figure sottili con casco e ginocchiere saettano longitudinalmente prima di cadere o di frenarsi. Spicca la stazza corpulenta di Amy, un transessuale 28enne che fa anche il volontario per tenere aperta questa struttura: «Vengo qui a pattinare un paio di volte alla settimana. Mi piace l’ambiente perché ha carattere e per le sue linee, ma pattinerei anche in un velodromo moderno. No, non vado più in chiesa. Ho smesso perché c’era troppa gente che non accettava le mie scelte di vita».
Dal gennaio 2012 la chiesa cattolica di san Giuseppe ad Arnhem è stata trasformata in una pista per skateboard. Anticipando o seguendo lo stesso destino di centinaia di chiese cattoliche e protestanti in tutta l’Olanda, era chiusa al culto dal 2005. Costruita nel 1928 e dotata di 888 posti a sedere, aveva servito la comunità di immigrati cattolici che dal sud si era trasferita in questa regione protestante dell’Olanda in cerca di lavoro dopo la Prima Guerra mondiale. Al tempo in cui si decise la chiusura, 15 fedeli frequentavano l’unica Messa domenicale.
«Non ho mai incontrato nessuno che si lamentasse dell’uso che facciamo della chiesa», dice fra un sorso e l’altro della sua lattina di Heineken Collin Versteegh, il 49enne che ha avuto l’idea. «Il parroco e il consiglio parrocchiale ci hanno dato il via libera a condizione che pagassimo la tassa comunale sugli immobili, che da sola si porta via tutti i profitti. Spesso vengono qui vecchi parrocchiani a dare un’occhiata: tanta nostalgia da parte loro, ma nessuna amarezza». Le chiese cattoliche aperte al culto sono scese da 1.740 a 1.513 nel giro di un decennio, ma molte di più ne saranno chiuse nel futuro prossimo. «Prevedo che chiuderemo un terzo delle chiese attuali entro il 2020, e due terzi entro il 2050», dice a Tempi l’arcivescovo di Utrecht, il cardinale Wim Eijk. Le parrocchie cercano di affittare o vendere le strutture.
L’imponente complesso di ex scuole parrocchiali annesse alla chiesa di san Giuseppe è diventato la sede della tivù pubblica regionale, solo l’asilo infantile ha mantenuto la destinazione d’uso. «Ma non ci sono più le suore, e non è più una scuola cristiana. In Olanda abbiamo abolito la religione!», se la ride Collin Versteegh. Il buontempone esagera, ma non troppo: secondo l’edizione 2016 del rapporto “Dio in Olanda”, che da cinquant’anni analizza il rapporto degli olandesi con la fede religiosa, l’anno scorso solo un 14 per cento di loro dichiarava di avere fede in un Dio personale, contro un 24 per cento che si professa ateo e un 34 per cento agnostico. Il rimanente 28 per cento afferma di avere una visione “spiritualista” della vita. Cattolici e protestanti di tutte le denominazioni iscritti come tali nei registri ecclesiastici erano rispettivamente il 40,5 e il 36 per cento di tutta la popolazione nel 1970; oggi sono il 23 e il 10 per cento.
La conversione degli immigrati
Ma una religione l’Olanda contemporanea ce l’ha eccome, ed è quella dell’individualismo libertario. Chi, come gli immigrati, non nasce dentro a questa religione, è chiamato ad accedervi attraverso l’integrazione, che altro non è se non ciò che in ambito religioso si chiamava un tempo conversione. Forze politiche apparentemente contrapposte come il Partito per la libertà di Gert Wilders sovranista, anti-immigrati e anti-islam, i liberal di D66 (un incrocio fra il Partito democratico americano e il Partito radicale italiano) e i Verdi di sinistra di GroenLinks (questi sono i tre partiti che il 15 marzo scorso hanno guadagnato più seggi rispetto alle elezioni precedenti) condividono in realtà la stessa antropologia centrata sull’autonomia morale dell’individuo, rivendicano le stesse libertà per quanto riguarda aborto, eutanasia e matrimonio fra persone dello stesso sesso.
L’unica ma fondamentale divergenza riguarda la conversione degli immigrati e dei loro figli ai valori olandesi: da imporre con le buone o con le cattive vietando tutto ciò che si oppone a quei valori, a cominciare dall’islam secondo Wilders e molti altri olandesi che pure non lo hanno votato; da attendere con fiducia rimuovendo gli ostacoli economici e psicologici secondo i progressisti di tutte le sfumature, fideisticamente certi che lo stile di vita secolarizzato esercita di per sé un’attrazione irresistibile.
Una definizione brutale ma perfetta dell’identità olandese contemporanea la potete ascoltare dalla bocca di Ebru Umar, la giornalista olandese di origine turca entrata in rotta di collisione col governo Erdogan e con la maggior parte della comunità turca in Olanda (di più su di lei all’articolo alle pagine seguenti): «Essere olandesi vuol dire essere un individuo che ha un’opinione su tutto e te la dice in faccia anche se non ti piace, essere un liberal, uno al quale non importa nulla della religione in cui credi e del modo in cui fai l’amore, basta che lo lasci in pace, essere olandesi vuol dire pretendere la stessa libertà illimitata per sé e per gli altri». Una definizione critica la potete ascoltare dalla bocca del cardinal Eijk: «La nostra è la società dell’individualismo esagerato. L’individualista è una persona autoreferenziale, convinta di avere non solo il diritto ma il dovere di costruire da sé il proprio essere e i propri valori etici. Non cerca punti di riferimento negli altri, in realtà e strutture che lo trascendono, ma solo in se stesso».
Una definizione da scienziato sociale l’ascoltate da Kim Putters, direttore dell’Scp (l’Ufficio per la pianificazione sociale e culturale, istituzione pubblica che è la somma di quello che in Italia fanno l’Istat e il Censis) e per dieci anni senatore del partito laburista: «Cosa vuol dire essere olandesi lo abbiamo chiesto agli olandesi stessi, e sono emersi tre fattori: l’orgoglio per il benessere e la proiezione mondiale dell’economia nazionale; l’attaccamento alla libertà individuale sotto tutte le sue forme; il welfare state come lo strumento più idoneo per prendersi cura di ogni membro della società. Oggi cresce l’ansia perché si avverte che tutto questo è in pericolo. Gli olandesi sono orgogliosi di essere stati uno dei primi paesi al mondo che ha introdotto il matrimonio fra persone dello stesso sesso, e quando settimana scorsa una coppia omosessuale è stata aggredita da un gruppo di minorenni marocchini nella città di Arnhem in tutto il paese ci sono state manifestazioni di solidarietà, ma anche la presa di coscienza angosciata che il nostro modello di vita è attaccato dall’esterno e dall’interno».
L’Olanda è ancora il paese del Partito per gli animali, che esige l’obbligo di anestesia non solo per gli animali macellati nei mattatoi, ma anche per i crostacei prima di essere immersi nell’acqua bollente; è il paese dove la stampa dà risalto alle proteste della principale organizzazione per i diritti lgbt che denuncia le politiche dei comuni che rendono inaccessibili le aree pubbliche frequentate dagli appassionati del sesso all’aperto («meglio metterci più piante, che permettano di infrattarsi meglio»); è il paese che prende sul serio la proposta di riforma della legge pro-eutanasia avanzata da D66: chiunque abbia compiuto almeno 75 anni dovrà avere il diritto di porre fine alla sua vita assistito dallo Stato se lo desidera e dichiara «concluso il proprio percorso vitale». Ma non è più solo questo.
Diffamazione e discriminazione
È anche il paese dove un consigliere comunale di origine turca di Rotterdam sospettato di simpatie per il fallito golpe in Turchia del luglio scorso si dimette per le intimidazioni dei suoi connazionali residenti in Olanda e per la campagna diffamatoria contro di lui della stampa turca, senza che nessuno prenda convintamente le sue difese. È il paese dove una Ong cristiana protestante, il Transatlantic Christian Council che fa lobbismo contro l’ideologia gender alle Nazioni Unite e all’Unione Europea, deve fare ricorso in tutti i gradi di giudizio per vedere riconosciuto il diritto alla detrazione fiscale per chi fa donazioni all’ente, essendo stato inizialmente giudicato inaccettabile che il «rafforzamento del sistema legale» oggetto delle sue attività fosse centrato sui valori cristiani. Per poter esercitare un diritto pacificamente riconosciuto a qualunque organizzazione gay, Henk Jank van Schothorst, padre di sei figli, ha dovuto sobbarcarsi 30 mila euro di spese legali delle quali lo Stato ha rimborsato solo 3 mila euro.
L’Olanda è un paese dove un numero crescente di social media denunciano xenofobia e islamofobia (la pagina Facebook Meldpunt Islamofobie en Discriminatie, il sito internet dutchturks.nl, ecc,), a volta pretestuosamente ma a volte anche fondatamente, seppure in forma aneddotica. Dutchturks recentemente raccontava la storia di un concessionario d’auto usate di origine turca contattato via email da un potenziale acquirente che intendeva accertarsi se il veicolo in vendita avesse avuto un proprietario turco. In tal caso, secondo costui, il libretto delle revisioni periodiche era certamente falsificato e inattendibile.
Dal 15 marzo scorso l’Olanda è anche il paese di Denk, il partito pro-immigrati contiguo all’Akp di Erdogan che ha conquistato 3 seggi e che propone il seguente programma: un corpo di polizia di mille agenti incaricato esclusivamente dei reati a sfondo razziale, corsi di rieducazione obbligatori per coloro che sono condannati per reati di razzismo e loro esclusione dai posti di lavoro nella funzione pubblica, eliminazione di tutta la toponomastica legata al passato colonialista dell’Olanda, quote di assunzione del 10 per cento per gli immigrati nelle imprese, corsi di turco e di arabo in tutte le scuole pubbliche. Kim Putters ammette che la questione è complicata: «Un problema di discriminazione c’è: i figli di immigrati tendono ad avere un buon rendimento scolastico, ma faticano più degli olandesi autoctoni a trovare un’occupazione. I datori di lavoro tendono a privilegiare i curriculum degli olandesi autoctoni su quelli degli immigrati, soprattutto marocchini».
La resistenza del populismo
La questione marocchina è paradossale, perché mette in discussione una delle certezze della religione individualista olandese. I marocchini (numericamente equivalenti ai turchi, entrambe le comunità contano circa 400 mila unità) sono più integrati dei turchi: sono più secolarizzati di loro e parlano meglio l’olandese. Eppure il 70 per cento dei marocchini ha problemi con la legge prima del compimento del trentesimo anno di età per reati contro il patrimonio o a sfondo sessuale, mentre il tasso di criminalità dei turchi è identico o inferiore a quello degli olandesi autoctoni. A proteggere i giovani turchi da passi falsi non è l’integrazione, ma il suo contrario: la coesione familiare, l’introversione del gruppo, il relativo isolamento dal resto della società.
Morale della storia secondo Kim Putters: «I giornali stranieri hanno scritto che il voto olandese ha sconfitto il populismo, e tutta l’Europa deve essere grata all’Olanda. Non è così. I motivi di preoccupazione, i sentimenti negativi, le ragioni del pessimismo sono ancora tutte presenti. Se il nuovo governo non riuscirà a farsi carico di tutte queste preoccupazioni, la polarizzazione politica aumenterà. Il populismo non è stato affatto sconfitto».
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