Perché non dobbiamo stupirci se a Manchester uccidono i bambini
— 25 Maggio 2017 — pubblicato da Redazione. —
Perché i terroristi islamici massacrano i ragazzini? Perché in guerra anche loro sono «un bersaglio militare». A Manchester come in Siria. Si uccidono i bambini per sottomettere gli adulti
Perché i terroristi se la prendono coi bambini, perché scelgono di massacrare i ragazzini? Lo ha spiegato ieri mattina Franco Di Mare a Unomattina quando ha commentato i fatti di Manchester alla luce della sua lunga carriera di inviato della Rai in teatri di guerra. Ha raccontato come alcuni giornalisti, nel corso della guerra nella ex Jugoslavia, abbiano chiesto a esponenti di una delle milizie protagoniste dei massacri perché si accanissero indiscriminatamente contro la popolazione civile della parte avversaria, bambini compresi. La risposta dei miliziani fu raggelante: «I bambini sono un bersaglio militare». E di fronte allo sgomento degli interlocutori spiegarono il perché: la morte dei figli demoralizza e colpevolizza i genitori; un padre e una madre che perdono i loro figli a causa della guerra sperimentano un senso di impotenza e di colpa per non essere stati capaci di proteggere la vita dei loro piccoli, il compito che la natura affida ai genitori. Dopo questa esperienza tragica sono pronti a sottomettersi, oppure a ribellarsi a quelli della loro parte che li hanno trascinati nella situazione di guerra che ha comportato la perdita dei loro figli. Qualcuno penserà che la raffinata conoscenza della psicologia umana che ispira la crudeltà di chi prende a bersaglio i bambini durante un conflitto sia l’esclusiva di criminali di guerra come Radovan Karadzic, lo psichiatra e presidente della Repubblica serba di Bosnia condannato per le stragi di Srebrenica, i bombardamenti indiscriminati su Sarajevo e altri crimini contro l’umanità. Lo strano personaggio che iniziò la sua carriera politica militando nel partito dei Verdi e la concluse progettando e realizzando la pulizia etnica della Bosnia Erzegovina. Errore. I bombardamenti a tappeto della Seconda Guerra mondiale, le bombe a forma di oggetti della vita quotidiana che vennero sparse sui territori nemici, le incursioni notturne che colpivano bersagli non militari che avevano la sola colpa di essere illuminati rimandano alla stessa logica: demoralizzare la popolazione civile e spingerla alla ribellione contro il proprio governo che non si arrendeva a un nemico divenuto troppo forte.
I bambini diventano bersagli militari quando una guerra si prolunga, e i contendenti si sentono autorizzati a ricorrere a qualunque tattica pur di sconfiggere l’avversario. Ricordo il mio incontro con Majd, un quindicenne palestinese-siriano che giaceva in un ospedale di Damasco con tre buchi nell’addome, provocati dalle fucilate di un cecchino che lo aveva sorpreso sulla strada di casa, di ritorno dalla preghiera alla moschea. Miracolosamente era sopravvissuto all’agguato, la debolezza fisica della convalescenza e il pallore angelico delle membra lo facevano sembrare ancor più giovane della sua età. Majd viveva a Yarmuk, il quartiere ghetto di Damasco abitato da discendenti dei profughi palestinesi che avevano abbandonato le loro case all’indomani della guerra arabo-israeliana del 1948-49. Quando era scoppiata la guerra civile siriana, il quartiere si era spaccato a metà fra sostenitori del Free Syrian Army e sostenitori del governo Assad, che avevano cominciato a spararsi addosso; le cose sarebbero poi peggiorate con l’arrivo dell’Isis e dell’allora Jabhat al Nusra (al Qaeda siriana).
Chiesi a Majd, stupito, perché mai i cecchini dovessero prendersela con un quindicenne disarmato che tornava a casa dopo la preghiera. Risposta: «Sì, all’inizio di questa guerra i soldati si sparavano fra di loro, ma dopo sei mesi hanno cominciato a sparare anche sui civili; all’inizio sparavano solo sui maschi, poi hanno cominciato a sparare anche sulle femmine; poi tre mesi fa hanno cominciato a sparare su noi ragazzi. Negli ultimi tre mesi ho perso cinque compagni di giochi, tutti della mia stessa età, tutti uccisi dai colpi dei cecchini. Vede quel letto laggiù?», disse indicando il lato opposto della stanza. «Fino a ieri lì era ricoverato un altro ragazzo di Yarmuk, un bambino di 11 anni. Gli hanno dovuto amputare una gamba perché la sua ferita era molto grave». Il cecchino è il tossicodipendente della guerra, ha bisogno della scarica di adrenalina che arriva quando hai centrato il bersaglio e ti senti come Dio, padrone della vita e della morte degli uomini, perciò quando i nemici hanno imparato a nascondersi te la prendi coi bersagli più facili, ingenui e indifesi. Ma c’è anche nel caso del cecchino una razionalità politica e psicologica: il mio nemico è pronto a morire pur di vincere questa guerra, ma forse non è pronto a sacrificare la vita di sua moglie e dei suoi figli, forse questo gli fa veramente male, e perciò lo colpirò proprio lì.
Sempre a Damasco, nel corso di un’altra missione, andai a visitare i feriti di un attentato compiuto poche ore prima. Nel quartiere di Qassaa, a maggioranza cristiana, era esplosa una bomba alle sei della sera nascosta fra le auto parcheggiate lungo un marciapiede sul quale si affacciavano numerosi negozi. Era l’orario della passeggiata e dello shopping serale, e il marciapiede era affollato di famiglie coi bambini intente a fare acquisti o a guardare le vetrine. La bomba non era grossa, ma uccise una ragazzina cristiana di 13 anni di nome Gima e ferì una trentina di persone, quasi tutte donne e bambini. Dall’altra parte della strada c’era l’ospedale San Luigi dei francesi, e lì vennero ricoverati i feriti, compresa la mamma di Gima. Io per caso mi ritrovai a passare per il corridoio dove era ricoverata, proprio nel momento in cui qualcuno le comunicava che la figlia era morta sul colpo la sera prima. Il pianto straziato della madre ammutoliva e faceva abbassare la testa a tutti quelli che si trovavano nel corridoio, per lo più parenti. Uno solo ebbe una reazione attiva: il papà di Gima venne verso di me come se avesse capito al volo chi ero e mi apostrofò in arabo, dicendomi più o meno: «Se odiate tanto Assad, attaccate la polizia, attaccate il suo esercito. Perché ve la prendete con noi, perché ammazzate i nostri figli?». Giornalista occidentale, ai suoi occhi io non ero un testimone ma una delle parti in causa, il complice di quelli che gli avevano appena ucciso una figlia e ferito gravemente la moglie. Se fosse andato fino in fondo al giudizio su di me che mi aveva urlato in faccia, avrebbe dovuto afferrarmi per la gola e stringere. Ma non lo fece, e il perché glielo si leggeva negli occhi e in tutto il corpo: lo agitavano un misto di rabbia, dolore e soprattutto paura. Quell’uomo aveva paura di me, mi accusava, ma quasi implorando pietà. Era uno sconfitto che si appellava alla mia clemenza, che riconosceva la sua impotenza nel mentre che protestava per quello che gli era accaduto.
La guerra prima di Al Qaeda e oggi dell’Isis contro l’Occidente e i governi arabi suoi alleati si protrae da molto tempo, le condizioni perché non solo i civili genericamente intesi, ma i figli piccoli sia dei civili che dei combattenti diventino il bersaglio intenzionale di attacchi si sono create. I terroristi sono certi che, se non vogliamo sottometterci per orgoglio o per un personale senso dell’onore, lo faremo almeno per amore dei nostri figli, perché li preferiremo inquadrati in una repubblica islamica piuttosto che fatti a pezzi durante un concerto o una partita di calcio o all’uscita della scuola. Questa è la piega che prende ogni guerra entro la quale almeno una delle parti in causa agisce al di fuori della logica del compromesso possibile, non prevede soluzioni mediane fra la vittoria e la sconfitta totali, e quando il conflitto si protrae e si articola su tempi lunghi. Chi si stupisce di questi orrori sembra avere davvero la memoria corta (la Seconda guerra mondiale e le guerre della ex Jugoslavia sono dietro l’angolo), oppure appartenere alla schiera di chi pensa che l’Occidente sia talmente diverso e superiore rispetto alle altre regioni del mondo, che le nefandezze di casa in Africa o in Medio Oriente sono solo residui di un’altra epoca, della quale noi siamo usciti almeno settant’anni fa. Non è così. Noi ci siamo semplicemente insulati dalla violenza globale che nel secondo dopoguerra ha sconvolto le vite di centinaia di milioni di persone in tutto il mondo grazie al predominio politico ed economico e alla nostra superiorità militare e tecnologica, che ci ha permesso di partecipare selettivamente a quella violenza limitando i danni (qualche decina di migliaia di caduti in Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan). La globalizzazione ha posto fine al nostro splendido isolamento anche sotto questo terribile aspetto, e la logica della sottomissione degli altri attraverso la violenza intimidatoria per esercitare il massimo di potere è tornata sulla scena anche nei nostri bei continenti europeo e nordamericano.
I cristiani e tutti coloro che hanno coscienza della radicalità del male dovrebbero avere sempre saputo che le cose stanno così, non dovrebbero stupirsi veramente. I leader religiosi che in buona fede e con ottime intenzioni si interrogano sui passi da compiere per rendere possibile la convivenza e la collaborazione fra nazioni, etnie e religioni diverse, o invitano il loro gregge a gesti coraggiosi in vista di un rinnovamento della civiltà planetaria, mi sembra che adempiano solo a una parte della loro missione, in fondo la meno qualificata. Che ci voglia più giustizia, anche economica, a questo mondo, e che i dissensi e i conflitti di interessi fra nazioni e fra gruppi di popolazioni sia più saggio regolarli con le mediazioni che con la pulizia etnica ai danni dell’altro gruppo, sono idee condivise dalla stragrande maggioranza delle persone, anche in epoca di pensiero debole e di relativismo.
Servirebbe a questo punto ricordare e insegnare anche quello che è specifico della visione religiosa della realtà, e che eccede il semplice buonsenso ispirato dall’istinto di conservazione. Peccato originale ed esistenza del diavolo non sono due pittoreschi residuati del passato all’interno della dottrina cristiana, ma due chiavi di giudizio sulla condizione umana che dovrebbero ispirare la visione e l’azione di ogni credente, dal semplice padre di famiglia al politico investito di grandi responsabilità. Se non accettiamo di riconoscere che nella storia umana il male sarà presente fino alla fine dei tempi, e che sarà vinto definitivamente soltanto da un Altro; se non accettiamo l’idea che il Nemico di Dio sempre suggerisce alle creature umane di rendersi uguali al Creatore e sostituirsi a Lui per stabilire loro cosa è giusto e cosa è sbagliato, e per esercitare un dominio pieno e illimitato su gli altri esseri umani. Se non abbiamo coscienza di queste due cose, non sapremo difenderci, perderemo quel po’ di libertà che ci è rimasta e non sapremo piangere nel modo giusto i figli che abbiamo perduto e che ancora perderemo. Come dice san Paolo: «Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti» (Efesini 6, 10-12).