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Simboli di mafia doveri civili e cristiani

 

Il caso Riina interpella la società civile, la politica ma anche la comunità ecclesiale. Partiamo dai fatti. Salvatore Riina, il capo dell’organizzazione mafiosa ‘cosa nostra’, condannato all’ergastolo, si trova detenuto, a Parma, con il regime penitenziale speciale del ’41 bis’. Più volte i suoi legali hanno chiesto il differimento della pena (sospensione) o gli arresti domiciliari, ottenendo sempre un rifiuto. Ora i giudici della prima sezione della Corte di Cassazione hanno annullato la decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna, chiedendo allo stesso tribunale a emettere una nuova valutazione. La Cassazione ha, infatti, ritenuto il provvedimento del tribunale di Bologna «carente di motivazione sotto il profilo della attualizzazione della valutazione sulla pericolosità del soggetto». Secondo la Corte di Cassazione, in altre parole, il provvedimento «non chiarisce, con motivazione adeguata», basate «su precisi argomenti di fatto», come la pericolosità di Riina «possa e debba considerarsi attuale», in considerazione della precarietà delle sue condizioni di salute. Questi i fatti. Da questo momento la palla ritorna al tribunale di Bologna, il quale dovrà decidere se Riina potrà o meno curarsi sempre in regime di detenzione o se potrà essere assegnato agli arresti domiciliari e magari tornare nella sua casa di Corleone. Salvatore Riina ha un’età avanzata, non sta bene. Ma partecipa a tutti i processi che lo riguardano.

Non si trova in una condizione analoga allo stato vegetativo dell’ultima fase di vita di Bernardo Provenzano, al quale fu rifiutata comunque la sospensione o l’alternativa della pena. Certo, secondo l’articolo 27 della Costituzione «le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Purtroppo le attuali strutture carcerarie sono spesso contrarie alla dignità umana. La Costituzione è, in questo, tradita. Ma allora bisognerebbe fare uscire quasi tutti i carcerati e tutte le detenute. Nel caso specifico, la Corte di Cassazione non può non sapere che l’«attualità del pericolo» di Riina persiste perché, a giudizio di tante Procure, egli è ancora il capo di una vasta rete di criminalità organizzata, una realtà che, in termini teologici, possiamochiamare una «struttura di peccato». E, più ancora, la Corte non può non sapere che un’eventuale scarcerazione del capo di ‘cosa nostra’, sul piano simbolico, sarebbe devastante per la credibilità democratica della Repubblica.

Noi lo sappiamo: la mafia esercita il suo potere anche con i simboli. Un’uscita dal carcere di Riina apparirebbe un cedimento da parte dello Stato, quello stesso Stato che non ha fatto abbastanza per spezzare l’intreccio tra mafia e politica, finanza e servizi segreti deviati. A pochi giorni dall’anniversario della Strage di via D’Amelio a Palermo tutto ciò sarebbe ancor di più una beffa nei confronti delle vittime. Come ha scritto il giornalista Attilio Bolzoni, «per quello che ha rappresentato e ancora rappresenta, Totò Riina a piede libero è come liberare la mafia, un perdono collettivo». Nessun accanimento: se c’è un «decadimento» delle condizioni di salute, lo Stato nato dalla Resistenza deve garantire a tutte le persone detenute la degenza in una struttura sanitaria adeguata, anche a 7 stelle. Ma non lanci un messaggio del tipo ‘liberi tutti’. Perché, in quel caso, perderebbe la credibilità guadagnata con il sacrificio di uomini e donne generosi.

Non ci si può richiamare ai principi in astratto, senza calarli, responsabilmente, nella situazione storica.

Come cristiani, come comunità ecclesiali, di fronte a concrete vicende come questa, non possiamo lavarcene le mani dicendo «lasciamo tutto nelle mani di Dio» come si legge in certi siti online. Non possiamo lasciare che le cose accadano nel nostro silenzio. Non possiamo sottrarci a una scelta di campo, un doveroso atto di responsabilità. Una testimonianza che non assuma la fatica conflittuale della storia enella storia diventa alienante. La spiritualità viviamola nella storia e a partire dalla storia, altrimenti diventa incapace di farsi carico del dolore e dei conflitti complessi della vicenda umana. Si ha la responsabilità di vivere il Vangelo nella realtà così come è, non in un mondo a parte.Per questo, usare il linguaggio del perdono e della misericordia senza contestualizzarlo non aiuta seriamente a rendere ragione del Vangelo.

Fonte: Rosario Giuè | Avvenire.it

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