La sentenza di morte delle autorità inglesi e della Corte di Strasburgo ha ignorato la sete disperata di vita dei due giovani genitori che volevano solo tentare le cure negli Stati Uniti. E smaschera l’ipocrisia di un’Europa che si batte per tutti i diritti ma non accoglie un bimbo malato e fragile
Charlie Gard, dieci mesi, deve morire. Così hanno stabilito i giudici inglesi, così ha sentenziato la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Così hanno voluto i medici del Great Ormond Street Hospital, il centro pediatrico di Londra dove il piccolo Charlie sta combattendo la battaglia più ingiusta e crudele. Una sentenza di morte – granitica e senza appello – che ha ignorato in tutti i passaggi l’anelito di speranza e la sete di vita di due giovani genitori, Chris Gard e Connie Yates, che non avrebbero voluto interrompere il trattamento di ventilazione artificiale per il figlio ma portarlo negli Stati Uniti e tentare l’impossibile con cure sperimentali per cercare di domare una malattia genetica rara, qual è la sindrome di deperimento mitocondriale.
Dopo questa sentenza della Corte di Strasburgo parlare di accoglienza in Europa sarà più difficile e anche più ipocrita. Non si potrà più dire che in questi casi conta solo la volontà del paziente, o dei suoi genitori, se è troppo piccolo per poterla esprimere da sé. Non si potrà affermare che le determinazioni dei medici devono fermarsi un passo prima di quelle del malato o dei suoi tutori. Non si potrà parlare di libertà di scelta perché l’unica scelta possibile – incoraggiata a colpi di sentenze e d’interpretazioni creative delle leggi – è quella della morte. Questa vicenda segna un punto di non ritorno perché l’Europa ha condannato alla morte un neonato la cui vita è debole e fragile contro la volontà dei suoi stessi genitori. Nell’Europa che per tutto si batte, dai diritti civili alla parità di genere, non c’è posto per un bimbo malato.
Nell’Europa la cui Corte tante volte si è sostituita agli Stati quando bisognava concedere nuovi diritti e nuove libertà ora afferma che non può intromettersi in quello che hanno deciso le autorità nazionali. Nell’Europa che quando si è trattato di legiferare sui desideri di singoli o di piccole lobby piccole ben organizzate ha invocato l’articolo 8 della Convenzione europea per i diritti dell’uomo sul «diritto al rispetto della vita privata e familiare» ora, davanti al lettino di Charlie, non lo invoca più.
Tutto il resto è arbitrio. Quello dei medici che, sostituendosi ai genitori del piccolo, hanno chiesto al giudici di dichiarare «pienamente lecito e nel miglior interesse di Charlie che si interrompa la ventilazione artificiale» dato che «le misure e i trattamenti finora adottati sono i più incompatibili con la dignità di Charlie» e di dichiarare legittimo il rifiuto di consentire al trasferimento di Charlie per un nuovo trattamento sperimentale in America. Quello dei giudici inglesi che hanno giudicato con troppa leggerezza (o ideologia?) che si tratta di accanimento terapeutico senza dimostrare che la ventilazione artificiale consente a Charlie di respirare e hanno affermato che la volontà dei genitori non assume nessuna rilevanza, né può essere d’aiuto al giudice nel risolvere la questione e nell’interpretare la legge nella direzione più naturale e ragionevole, ma rappresenta un ostacolo all’individuazione di quale sia il “miglior interesse del fanciullo”.
La malattia provoca a Charlie una progressiva immobilità muscolare, ma, come hanno detto i genitori, il bimbo aumenta di peso e riconosce le persone, prova piacere, usa la bocca e gli occhi per fare capire loro cosa gli piace e cosa no.
Se esiste la libertà di scelta e il principio di autodeterminazione perché l’ospedale inglese si è opposto alla richiesta dei genitori di Charlie di mantenerlo vivo fin tanto non riescano a organizzare il suo trasferimento per un trattamento alternativo che gli è stato prospettato negli Stati Uniti?
Fonte: Antonio Sanfrancesco | Famiglia Cristiana.it