C’è stato un periodo in cui l’Italia cresceva assieme alle nuove generazioni. È accaduto nei primi decenni del secondo dopoguerra, all’epoca del boom economico e del baby boom. Una fase della nostra storia in cui il Paese era ricco soprattutto di giovani, carichi di energia da spendere con fiducia per costruire un domani migliore e con nuovi spazi e opportunità per provarci. Non mancavano le difficoltà e le contraddizioni, ma valeva molto di più la scommessa su ciò che si poteva ottenere uscendo dalla casa dei genitori che la promessa di protezione nella famiglia di origine. Giovani generazioni lanciate dal Paese all’attacco di un futuro da costruire e non schiacciate in difesa dai rischi del presente. La preoccupazione principale non era per ciò che del passato andava perso ma per il nuovo ancora da generare e costruire.
Oggi quell’Italia risulta ribaltata da molti punti di vista, a partire da quello demografico. L’abbondanza di giovani esuberanti l’abbiamo persa. Gli under 30 erano circa la metà della popolazione al censimento del 1951, mentre oggi non arrivano al 30% ed è il valore più basso in Europa. Con il paradosso che oltre ad avere meno giovani, rispetto agli altri Paesi, li valorizziamo di meno. I dati Istat appena pubblicati, riferiti a maggio 2017, ci dicono che nella fascia 15-24 gli occupati sono il 16%, circa la metà rispetto al resto alla media Ue-28 (32%). Ma le difficoltà si estendono anche nella fascia giovane-adulta: il tasso di occupazione in età 25-29 è sotto di venti punti rispetto alla media Ue ed è il dato peggiore tra i Paesi membri. Conferma la nostra incapacità di rendere le nuove generazioni parte attiva dei processi di crescita del Paese anche il dato sui Neet, gli under 30 che dopo essere usciti dal sistema formativo rimangono in inoperosa attesa fuori dal mondo del lavoro. Il tasso di Neet nella fascia 15-29 è superiore al 20 percento, oltre il doppio rispetto alle nazioni europee più avanzate. Ci caratterizza, inoltre, una quota particolarmente rilevante di disoccupati di lunga durata e di scoraggiati. Va poi aggiunto, come mostrano i dati del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, che la condizione di Neet espone anche ad un rischio più alto di percorso bloccato nelle scelte di transizione alla vita adulta. Al “non” studio e lavoro si associano infatti anche altri “no” sul versante delle scelte di autonomia, della formazione di una famiglia, della partecipazione civica e di piena cittadinanza.
Il rischio è quello di scivolare sempre di più in una doppia spirale negativa: meno crescita, meno opportunità per i giovani, adattamento al ribasso, meno valorizzazione del capitale umano e quindi ancor meno crescita; ma anche meno risorse investite sulle nuove generazioni in un paese che invecchia, meno sostegno attivo all’autonomia e alla formazione di una propria famiglia, quindi maggior denatalità e accentuazione dell’invecchiamento della popolazione.
Utile può essere il confronto con la Germania, un Paese in deficit di giovani come il nostro ma che vuole comunque continuare a crescere valorizzando capacità e competenze delle nuove generazioni. A dimostrarlo è il fatto che tale nazione investe su formazione terziaria, welfare attivo, servizi per l’impiego, innovazione, ricerca e sviluppo, molto più rispetto alla media europea, mentre noi rimaniamo sensibilmente al di sotto. La strategia tedesca risponde, quindi, alla riduzione quantitativa con una compensazione sul versante qualitativo, potenziando il capitale umano delle nuove generazioni e la sua valorizzazione nel sistema produttivo. L’esito è che la Germania cresce molto più del nostro Paese e il tasso di spreco dei giovani (percentuale di Neet) è un terzo del nostro. Ma non basta, la Germania per compensare il deficit di giovani di qualità e alimentare la propria crescita, attira capitale umano anche dagli altri paesi avanzati. Non a caso l’Italia presenta un saldo negativo tra investimento in formazione di giovani che vanno all’estero rispetto al capitale umano che attrae, mentre per la Germania tale saldo è positivo. La percezione comune è che un giovane italiano che voglia provarci abbia molte possibilità in più di riuscirci se attraversa i confini anziché rimanere nel proprio Paese di origine.
L’evidenza di quanto sia in mutamento il sistema di rischi e opportunità all’interno del quale le nuove generazioni producono le proprie scelte, trova riscontro nel fatto che quando si parla oggi di giovani ci si trova ad utilizzare dei neologismi. Oltre a Neet, un nuovo termine utilizzato è quello di Expat, che indica i giovani dinamici e intraprendenti, spesso con alto capitale umano, che si muovono senza confini per cogliere occasioni di ulteriore formazione o di rafforzamento professionale all’altezza delle proprie ambizioni. L’altra faccia della medaglia è la mobilità internazionale che anziché scelta diventa necessità quando ci si trova in un contesto di basso sviluppo e carenti prospettive. Sempre i dati dell’Istituto Toniolo mostrano come tra gli studenti universitari italiani tenda a pesare maggiormente, rispetto ai coetanei europei, sia la componente positiva della scelta che quella negativa della necessità, nel valutare l’opzione estero alla fine degli studi. Un terzo neologismo nato con la generazione dei Millennials è quello di start-up.
Con tale termine, come ben noto, si intendono le nuove imprese ad alto grado di innovazione, con alto rischio di fallimento ma in grado di crescere molto velocemente in caso di successo. Rappresentano la punta dell’iceberg della combinazione positiva tra formazione avanzata e intraprendenza dei giovani, da un lato, e possibilità offerte dalla rivoluzione tecnologica e digitale, dall’altro. Gli startupper sono giovani che trasformano le proprie idee in prodotti e servizi innovativi in grado di espandere l’economia. Ma non esiste solo la ricerca spasmodica del massimo profitto. Sono in aumento i giovani che attraverso l’innovazione sociale, in risposta a bisogni e desideri insoddisfatti, provano a sperimentare nuove soluzioni di produzione di benessere equo e sostenibile.
Perché tali giovani abbiano successo serve però attorno un Paese che voglia provare a crescere, determinato a costruire un futuro migliore scommettendo pienamente sull’energia e l’intelligenza delle nuove generazioni. È la convinzione di puntare tutto su questa scommessa che abbiamo indebolito dal dopoguerra ad oggi, rendendoci un Paese che si è progressivamente schierato in difesa del benessere passato, lasciando ai margini del campo (in cui si gioca il futuro collettivo) i produttori di nuovo benessere.
Fonte: Alessandro Rosina | Avvenire.it