Casalinghe, sempre di meno, sempre più anziane, sempre più povere e sempre più scontente. Solo il nome non cambia mai. Forse è arrivato il momento di trovare una parola non solo più efficace, ma anche più autentica per definire una condizione la cui complessità ha superato l’efficacia della sintesi lessicale. Esiste ancora la casalinga secondo il modello della tradizione, o forse è rimasta soltanto una donna che è stata espulsa dal mercato del lavoro o che non è mai riuscita a trovarvi uno spazio? La fotografia che l’Istat ha diffuso ieri sulla condizione delle ‘Casalinghe in Italia’ contribuisce a chiarire tanti aspetti ma, come la maggior parte delle statistiche, non fornisce chiavi di lettura utili per inquadrare quei numeri in un processo sociale che è faticoso e anche drammatico. La domanda potrebbe essere questa: in che modo le resistenze al cambiamento che emergono dal dossier Istat possono risultare importanti per incoraggiare i più giovani a ‘essere’ e ‘fare’ famiglia?
Oppure, rovesciando di fatto i termini: quanto pesa la persistente asimmetria del lavoro di cura tra donne e uomini – che non vuol dire solo attività domestiche, ma anche attenzioni verso bambini e anziani, coordinamento degli impegni, degli acquisti e degli spostamenti, relazioni informali – nella meno frequentata scelta del ‘metter su famiglia’? È bene dire subito che i numeri non appaiono incoraggianti. Nella totalità del lavoro domestico non retribuito, quello cioè che si realizza all’interno della famiglia – complessivamente 71 miliardi e 353 milioni di ore – le donne sono state costrette a sobbarcarsi il 71% del totale. E cioè l’enorme e quasi inimmaginabile cifra di 50 miliardi e 994 milioni di ore di lavoro.
Ancora più impietosamente l’istat spiega che, sempre per quanto riguarda il lavoro di casa, circa 7 milioni delle cosiddette ‘casalinghe’ hanno portato a termine un monte ore di lavoro non retribuito pari a quello prodotto da 25 milioni di uomini. Roba da far impallidire il presunto ‘sesso forte’. E non serve invocare il fatto che gli uomini sono più impegnati fuori casa. Anche quando entrambi hanno un lavoro retribuito, le variazioni sono quasi impercettibili. Per quanto riguarda la percentuale di asimmetria siamo passati dall’89,6% del 1989 all’80,3% del 2014.
Certo, nelle coppie più giovani, quelle fino ai 34 anni, e poi nello scaglione 35-44 anni, le differenze appaiono un po’ meno significative ma, quando si entra nel dettaglio delle varie attività, le conferme (negative) si sprecano. Se parliamo per esempio di lavare e stirare, i salti generazionali si annullano. Nel 100% dei casi questi mestieri – sostiene l’istat – rimangono a carico delle donne, senza differenze tra giovani e anziane. Su altri fronti il miglioramento c’è, ma davvero irrisorio, ed evidentemente non serve ad annullare i livelli di insoddisfazione delle donne. Se tra il 2003 e il 2014 l’asimmetria è passata dal 94,2% all’80% nel cucinare, dal 93,5% al 78% nelle pulizie e dal 66,5% al 59,7% nel fare la spesa, non vuol dire che il baratro è stato colmato, ma solo che noi uomini siamo forse diventati un po’ meno insensibili nei confronti delle nostre partner. Piccoli passi verso una condivisione che rimane ancora lontana e, al di là dell’ingiustizia di fondo, pone almeno due questione. La prima di carattere sociopolitico.
Permangono gravissimi problemi di conciliazione famiglia-lavoro che devono essere risolti sia con interventi legislativi, sia con scelte aziendali più originali e più favorevoli che, diversificando il carico degli impegni, contribuiscano all’aumento del tasso di serenità a vantaggio sia dei lavoratori sia delle stesse imprese. Il secondo problema è di carattere educativo. I dati Istat ci dimostrano che, almeno in alcune aree del Paese, sono ancora maggioritarie dinamiche familiari legate a un vetero-maschilismo inossidabile a qualsiasi istanza di reciprocità e di pari dignità. Tutto ciò può essere ‘spezzato’ solo da una svolta educativa coraggiosa e consapevole. Che tocca alle famiglie stesse, ma anche alla scuola e alla pastorale. Altrimenti continueremo a pensare che tra il lamento delle casalinghe costrette a essere tali e la violenza domestica in tutte le sue forme non possa esserci alcun collegamento. Ed è vero il contrario.
Fonte: Luciano Moia | Avvenire.it