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I senza voce e il gigante. In morte di Liu, Nobel lasciato solo

È morto nello stesso modo in cui è vissuto per la maggior parte delle sua vita: sotto stretta sorveglianza. Il premio Nobel per la pace Liu Xiaobo, il più famoso dissidente cinese, ha perso la sua battaglia contro il cancro; del resto, le carceri della Cina non sono il luogo migliore per essere curati. Ma è l’Occidente ad aver perso una partita ancora maggiore: quella contro l’afonia che ci contraddistingue quando ci occupiamo dei metodi con cui il gigante politico di Pechino ancora gestisce ogni dissenso.

La sua sedia vuota alla cerimonia di assegnazione del Nobel nel 2010 aveva detto più di molti discorsi e segnalato come il Partito comunista cinese non tollerasse né voci dissonanti né, tantomeno, l’attenzione del mondo sui propri «affari interni». In particolare, se nel cono di luce appariva lui, Liu, un gigante morale, passato dalle aule dell’università ai negoziati per evitare il peggio durante le proteste di piazza Tienanmen nel 1989, fino alle celle di una prigione o agli arresti domiciliari, mantenendo sempre ferme le richieste di democratizzazione e di apertura al pluralismo politico e culturale. Solo quando le sue condizioni di salute sono precipitate, gli è stato consentito il trasferimento in un ospedale (ove almeno ha rivisto la moglie, la poetessa Liu Xia). Ma il regime ha detto no al suo trasferimento all’estero per cure migliori. Troppo alto il rischio di sue dichiarazioni e del battage mediatico.

Scrupolo perfino eccessivo, forse: il presidente cinese Xi Jinping in questi giorni ha partecipato a meeting internazionali (ultimo il G20) e incontrato omologhi occidentali, ma il tema dei diritti umani non ha ottenuto il rilievo necessario. Troppo importante oggi la Cina, da ogni punto di vista, e troppe le partite aperte cruciali – dalla lotta al riscaldamento globale orfana degli Usa di Trump alla Corea del Nord, dalle relazioni commerciali e finanziarie agli enormi investimenti infrastrutturali cinesi nel continente euroasiatico – per rischiare tensioni su “temi futili”, come la vita di un uomo malato o la durezza con cui viene trattata la moglie. Tanto più che il presidente cinese – su questi temi – è di chiarezza cristallina. Lo ha ribadito nella sua recente visita a Hong Kong per celebrare i 20 anni dal ritorno alla Cina dell’ex colonia britannica. Molti soldi investiti per la sicurezza e per un’operazione simpatia che prevedeva ospiti famosi, sportivi, artisti, eventi celebrativi. Tutto, fuorché anche minime concessioni alle richieste di maggior pluralismo, previste dagli accordi con la Gran Bretagna nel 1997 e sempre disattese.

La sua mano pesante si vede anche in patria, verso i funzionari corrotti del partito, o piuttosto – si sussurra – verso i funzionari corrotti che si oppongono al suo potere e alle sue politiche (perché l’abuso finanziario, dentro il Partito comunista, è diffuso a ogni livello), e verso la società in generale. Una durezza giustificata con la necessità di tenere assieme un Paese molto diversificato a tutti livelli (etnici, religiosi, socio-economici) e che deve affrontare la sfida per la supremazia politica, economica e militare nella difficile regione dell’Asia Pacifico nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati locali.

Se la Cina deve fingere di essere un monolite – in omaggio a una lettura distorta e ossessiva della One China policy –, allora non ci si può permettere il lusso di tollerare diversità politiche pubbliche, narrazioni divergenti, comunità religiose non strettamente controllate, identità etniche troppo esibite o politicizzate. E nemmeno quello della compassione verso un malato terminale. L’amara verità è che, in un mondo in cui molti Stati sembrano guardare cinicamente solo al proprio interesse, in cui i rifugiati e i migranti sono descritti come peggio della peste nera, in cui le persecuzioni etniche e religiose aumentano invece che diminuire, in cui l’innalzare muri e blindare frontiere fanno guadagnare consensi, anche solo chiedere – con la necessaria convinzione – pietà umana a un potente sembra un massimalismo pericoloso.

 Fonte: Avvenire.it

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