Caro Avvenire,
scrivo ancora una volta come nonna, perché da un bel po’ di tempo non so più gestire i miei nipoti adolescenti, che restano da me a causa del lavoro dei genitori. Non mi sono adeguata, per scelta, all’uso degli attuali mezzi informativi. Ma quello che sta succedendo ora a giovani e meno giovani, bambini e ragazzi è una realtà che, a dir poco, mi sconvolge. Tutti sembrano impazziti, sempre con gli occhi e le dita fissi su quegli aggeggi disgregatori dei rapporti umani. Lo scopo era, doveva essere quello di essere utili, avvicinare. Se non sei connesso, non sei connesso. Il motivo di questa lettera è quello di avere un consiglio, un suggerimento da voi, dai lettori che abbiano il mio stesso problema: come togliere di mezzo il cellulare almeno qualche ora al giorno, per vivere e compiere azioni reali, normali. Sembrano tutti ‘zombie’ e non ascoltano le mie proposte, a loro sembrano assurde, noiose, antiquate. Grazie a voi e a coloro che accoglieranno il mio appello, a tutto lo splendido staff di Avvenire i miei più cari saluti e una preghiera.
Lettera firmata
Gentile signora, la questione che lei pone non è semplice (più semplice, stavolta, è concederle, come lei chiede, di mantenere riservato il suo nome). Come sottrarre allo schermo degli smartphone o del tablet dei nipoti che, come tanti ragazzi, ci stanno sopra tutto il giorno, fino a sembrarne ipnotizzati? Io non ho più quindicenni in casa, i miei figli sono più grandi. Anche loro spesso con il telefono in mano, però non ossessivamente, con la libertà di staccarsene. Allora mi è venuta l’idea di chiedere a uno dei figli, ventunenne, che cosa pensava della sua domanda, e per l’appunto per WhatsApp gliela ho girata. Risposta del figlio su WhatsApp: «Se penso a me, vedo che quando mi capita, per fortuna sempre più raramente, di ipnotizzarmi al telefono o al computer, è sempre per scappare. Scappare o da una realtà che ferisce o semplicemente dall’insoddisfazione. Internet, sempre nuovo e rinnovato, continuamente distrae. Mi viene in mente di avere sentito recentemente al teatro Dal Verme a Milano don Julián Carrón che, parlando di questi argomenti, diceva: come fare con questi ragazzi incastrati sull’iPad? Potranno interessarsi a un altro legame solo se ciò che accade loro davanti è più attraente di ciò che accade sullo schermo. E aggiungeva che la emergenza educativa è proprio proporre loro qualcosa di più interessante del vuoto, qualcosa che possa muovere le viscere dell’Io – quell’interno dell ’Io di cui parlava Sant’Agostino – per rendere la vita più umana». Io mi ritrovo in questa interpretazione, che ci si incateni a Facebook e agli altri social per sfuggire alla realtà presente. Magari perché è pesante, magari semplicemente perché appare noiosa. Tanti ragazzi che hanno apparentemente tutto passano le ore sul cellulare a scambiarsi messaggi e chat e selfie, o a giocare, senza nemmeno vedere coloro che hanno accanto. Questa noia, questa svalutazione della realtà in cui ci si trova potrebbe forse essere definita, con una parola che quasi non si usa più, accidia. Ma mi pare che nel collettivo incantarsi sul web dei ragazzi, e non solo dei ragazzi, non ci sia alcuna consapevolezza di questa sorta di malattia: così fan tutti… La signora che ci scrive è comprensibilmente smarrita. «Sembrano tutti impazziti», dice. E in effetti quando in un qualunque locale pubblico vedi che metà dei presenti è assorta e sola sul suo piccolo schermo, ti domandi quale mutazione si sia impadronita di noi. Che cosa dire a quei nipoti? Forse ‘dire’ serve a poco, e rischia sempre di essere vissuto come l’antiquato consiglio di una cara nonna. È come con i figli, ‘dire’ non serve a molto se nell’adulto non è visibile invece un modo di vivere convincente, affascinante, che generi il desiderio di essere capaci di vivere allo stesso modo. Bisogna davvero saper mostrare la bellezza della realtà, degli affetti, di ciò che ci circonda, per chiamar fuori un ragazzo dall’abulìa digitale. Non è facile. E forse è meno difficile che ci riescano degli insegnanti, o degli amici più grandi, che una nonna. Comunque, nemmeno la nonna deve arrendersi. Io quei nipoti cercherei di portarli, se posso, a vedere qualcosa di molto bello, e che personalmente mi appassiona. Cose anche semplici, un’alba in montagna, un film che mi è caro, una città che non conoscono, o una maternità di un ospedale, con i neonati in fila nelle culle. Ricordo che proprio in una maternità milanese assistetti un giorno a questa scena: una nonna guardava i bambini addormentati insieme a un nipote sui dieci anni, e gli diceva: «Tu pensa, questo bambino nove mesi fa non c’era, e ora c’è. Che mistero». Ecco, questo è lo sguardo che bisognerebbe contagiare, lo sguardo che vede la bellezza segreta di quel che pare quotidiano e normale. Poi, non è detto che i ragazzi dipendenti dal cellulare rinsaviscano. Ma forse almeno una incrinatura, una nostalgia, nel loro estraniamento, si sarà aperta. Il resto, è il gioco della loro libertà.
Fonte: Avvenire.it