Non lo dimenticheremo mai, il piccolo Charlie, e ciò che non si dimentica vale la pena incontrarlo. Questa massima funziona per tutto, anche per i libri. Se un libro poi lo dimentichi, non vale la pena leggerlo. Ma se non lo dimentichi più, allora fa parte di te, è in te, sei tu. Contiene le parole che cercavi, delle quali avevi bisogno. Quali parole stanno scritte nel libro intitolato Charlie?
Scrivo questa domanda e mi suona alle orecchie il rimbrotto del giudice dell’Alta Corte, Nicholas Francis: «Molte cose hanno detto su questo caso persone che non ne sanno nulla, ma si credono autorizzate a esprimere opinioni». È un rimprovero per me e per quelli come me, che non sono giudici e non sono medici, e tuttavia su questo caso umano pensano e parlano perché sono umani. Perché sono padri o madri. Charlie è per la madre Connie e per il padre Chris infinitamente più di quel che è per un giudice o un medico. Charlie ha meno di un anno, è nato il 4 agosto dell’anno scorso. Ma per sapere cos’è per il padre e la madre bisogna calcolare quanti sono i giorni di quegli 11 mesi, e le ore di quei giorni, e i minuti di quelle ore, e i secondi di quei minuti: viene fuori un numero sterminato, quel numero indica la montagna di sguardi, attenzioni, pensieri, gesti che padre e madre hanno dedicato al figlio. Questa è la montagna dell’amore.
Il figlio è un unicum per i genitori. Non lo è per la Legge, non lo è per la Scienza. La Legge lo giudica, la Scienza lo studia, ma i genitori lo amano. Alla fine della vita quel che andiamo cercando non è se siamo stati giudicati dai tribunali o studiati dalla scienza, ma se siamo stati amati da coloro che amavamo. Charlie è stato amato. Da tutti. Perciò la sua vita ha un senso. Come tutte, più di tutte. Aveva diritto di essere protetta il più possibile. Ci voleva (e noi, ingenuamente, l’aspettavamo) una concordia, una sinergia tra medicina e famiglia, come ha scritto e dichiarato il direttore di “Avvenire”, tra scienza e amore. Le leggi della scienza dovevano accordarsi con le leggi dell’amore, non aspettare o chiedere o imporre il contrario.
Non stiamo dicendo che la malattia avrebbe perso e la vita avrebbe vinto. Stiamo cercando di abbracciare la madre quando, nel ringraziare tutti coloro che nella sventura le hanno dato conforto, cita gli amici e l’ospedale «ma soprattutto Charlie, per la gioia che ha portato nelle nostre vite», e dicendo «nostre» intende la sua e quella di suo marito.
Chi di noi pensasse alla venuta del piccolo Charlie come a un segno di sventura, avrebbe dimenticato la montagna di messaggi corsi tra padre-madre e figlio nella montagna di secondi che formano gli undici mesi della sua vita e che sino all’ultimo istante continuerà a crescere. Di quella montagna di secondi e di contatti noi, lettori sparsi per il mondo, non ne conosciamo neanche uno. Ma padre e madre non ne dimenticheranno mai neanche uno. È questo che fa la genitorialità. Un padre unito alla madre perché ambedue uniti al figlio. Nell’espressione «ringrazio Charlie per la gioia che ha portato nelle nostre vite» c’è l’idea, presente anche in “Spoon River”, del figlio-con-problemi che lavora come un vasaio e dei genitori che si lasciano lavorare come creta, il vaso che ne risulta è la vita, ed è di quel vaso che lei ringrazia. Ha mai avuto una percezione o un’intuizione di questo rapporto, di questa sua operazione, di questa sua utilità il figlio? La medicina ci dice che la malattia è insorta un po’ dopo la nascita, con lo sviluppo della sindrome di cui sia il padre che la madre erano portatori sani. Ha capito di essere amato il piccolo, nella prima finestra temporale della sua vita?
Le madri hanno inventato un proverbio, sull’innata capacità dei figli di sentirsi subito amati e di approfittarne. Dice: “Un mesetto: un vizietto”. A un mese, intuiscono tutto. Il neonato che si sente amato s’imbellisce. Amato dal mondo è Charlie. La madre lo saluta con la formula «Dormi bene, mio bellissimo bambino», che non è un addio, ma un arrivederci all’alba.
Fonte: Ferdinando Camon | Avvenire.it