Javed, 28 anni, ha lavorato per due anni come «schiavo» per un debito di 2500 euro. Ma quando l’ha ripagato il creditore islamico non l’ha lasciato andare.
La schiavitù per debito continua a mietere vittime in Pakistan. Centinaia di individui o intere famiglie restano intrappolate nella rete di imprenditori e latifondisti senza scrupoli. Pronti a legare a sé i più poveri, concedendo loro crediti che non saranno mai in grado di cancellare. E anche quando ci riescono non è detto che il “padrone” decida di lasciarli andare. Anzi. Spesso gli ex schiavi, sfruttati fino allo sfinimento, vengono uccisi una volta terminato il “servizio”.
Proprio tale sorte sarebbe toccata a Javed Masih, cristiano 28enne di Faisalabad, popoloso centro della provincia del Punjab, assassinato – come hanno spiegato i familiari – da una dose di veleno somministrata dal creditore, un ricco musulmano, Tajamal Jatt, a cui Javed aveva chiesto, nel giugno di due anni fa, un prestito di 315mila rupie (circa 2.500 euro) per potere acquistare un’abitazione da destinare ai genitori. In cambio, firmando un contratto, si era impegnato a svolgere, per due anni, in condizione di totale dipendenza, attività domestiche e agricole per un minimo di 14 ore al giorno, sovente con un sovraccarico anche notturno quando gli veniva richiesto.
Due anni di sostanziale schiavitù, in cui il giovane ha anche subito umiliazioni e percosse da parte di Tajamal e dei fratelli Muzamal e Bilal. Javed ha sopportato senza reagire, sostenuto nel suo impegno anche dalla fede e dalla vicinanza della madre con cui si confidava. Proprio la madre ha segnalato i crescenti timori del figlio dopo che si era confidato con uno dei suoi aguzzini, Bilal, esprimendogli la speranza di potersi sposare e condurre una nuova vita alla scadenza del contratto. Quest’ultimo gli aveva detto chiaro e tondo che non si sarebbe mai affrancato da quel debito. A giugno, quando si è rivolto ai fratelli di Tajamal Jatt chiedendo loro di lasciarlo andare, ne ha ricavato solo insulti e minacce.
Poi sono arrivate intimidazioni sempre più esplicite. E infine un pestaggio davanti ad altri compagni di sventura. Alla fine, Javed si è “arreso” ai fratelli-schiavisti nel timore di ritorsioni sulla propria famiglia. Ma a quel punto era così prostrato da non riuscire più a sostenere i ritmi di lavoro precedenti. E i suoi “carcerieri” non hanno “perdonato”. Il 17 luglio scorso, mentre rientrava dopo aver acquistato un pesticida in pillole, si è sentito male. Nonostante le richieste, le suppliche, non è stato portato in ospedale: i suoi aguzzini lo hanno semplicemente scaricato davanti alla casa della madre. Quest’ultima ha tentato di farlo ricoverare il prima possibile. Ma un’autoambulanza è arrivata solo il mattino seguente, dopo un ulteriore aggravamento. Javed è arrivato in ospedale. E due ore dopo è morto. I sintomi che hanno portato al decesso tra atroci dolori sono descritti dai mass media pachistani come compatibili con l’avvelenamento da pesticida.
La famiglia ha sporto una denuncia contro Tajamal in cui chiede anche di considerare i segni di percosse e le ferite sul corpo di Javed come prove per procedere con un’indagine per omicidio. Per i fratelli-schiavisti si tratterebbe invece di suicidio, oppure di morte per cause naturali.
Ancora una volta, davanti a una vicenda tragica che coinvolge un esponente delle minoranze (dei 2,3 milioni di schiavi per debito come Javed, il 90 per cento sono di fede indù o cristiana) si manifesta l’arroganza di chi ritiene normale tenere in stato di asservimento altri individui, tenuti ai margini per questioni sociali o legali. Come segnala Wilson Chowdhry, presidente dell’Associazione cristiana anglo-pachistana che sostiene la famiglia in questo tempo difficile: «La Legge sull’abolizione del lavoro forzata del 1992 non vale nemmeno la carta su cui è scritta e l’apatia del governo nell’applicarla indica il poco valore dato ai cristiani e a altre minoranze».
Fonte: Stefano Vecchia | Avvenire.it