A Berlino il meeting annuale di esegesi sul Grande Codice ha riproposto la centralità degli studi in questo campo. Ricerche che hanno un’influenza sulle tematiche post-coloniali e transculturali.
Come ogni anno, anche quest’estate, sono state aggiunte alcune voci alla ricca lista dei “numeri straordinari” della Bibbia. Si è appena chiusa, infatti, l’annuale settimana dell’International Meeting delle associazioni SBL (Society of Biblical Literature) ed EABS (European Association of Biblical Studies): ospitato quest’anno nella prestigiosa cornice dell’Università Humboldt di Berlino, ancora una volta è stato celebrato il Convegno principe degli studi biblici, durante il quale relatori provenienti da ogni continente hanno dato vita a un’impressionante sfilata di relazioni, panels e tavole rotonde. Si diceva di “numeri straordinari”: senza voler ridurre l’International Meeting a una sorta di magma statistico, penso possa giovare sottolinearne l’ampiezza del programma che, articolato per titoli, non per abstracts, è raccolto in un libriccino di 112 pagine entro le quali sono elencati più di 1.200 interventi. La banalizzazione della realtà a una serie di dati quantitativi è probabilmente una delle più profonde (e attuali, ahinoi) ipoteche al buon senso, e questo perché “tanto” significa semplicemente “tanto”, non necessariamente “buono”; ogni confusione tra i due piani rischia di introdurre, vien da sé, un parametro di giudizio illogico: ciò vale ovviamente anche per questo Meeting che, come ogni anno, ancora una volta ha dato asilo a sessioni di lavoro di straordinaria caratura scientifica accanto a incontri il cui profilo critico emergeva – a giudizio di chi scrive – meno immediatamente. D’altra parte, anche questi soli numeri permettono di fissare alcune coordinate, prima fra tutte l’estrema vitalità di questo settore di ricerca: gli studi biblici rappresentano l’ambito probabilmente più vivace e diffuso nel panorama della ricerca umanistica. Le Scritture, già di per sé naturale interlocutore per gli studi sulle Antichità – dal X secolo a.C. al I d.C. –, nella staffetta tra composizione e ricezione dei testi, divengono una prospettiva dalla quale osservare il mondo e il suo divenire: già, perché studiare la Bibbia non vuol dire solamente ricostruire il testo e la formazione dei suoi libri, ma anche e soprattutto la loro circolazione, il loro impiego e, nell’incontro tra tradizioni critiche più consolidate con altre più recenti, il loro potenziale – religioso, politico, ideale – ancora inespresso. La Bibbia diviene così, sottoposta al vaglio di questa inquieta ricerca, una traiettoria che dalla filologia e dall’esegesi critica sa spingersi sino alle tematiche post-coloniali, alle prospettive transculturali, al cinema biblico eccetera. “Tanto” non significa per forza “buono”, lo si è già detto, né si può scordare che talora “tanto”’ faccia rima con “troppo”; d’altra parte, il fatto stesso che gli studi biblici abbiano saputo costituirsi come esemplare spazio critico sperimentale, dilatando il proprio perimetro sino a offrire un potenziale trait d’union tra i più diversi ambiti della ricerca umanistica mi pare un dato ormai caratteristico di questi studi e senz’altro apprezzabile. Ed è proprio questo tratto sostanzialmente – e innegabilmente – positivo a consolidarsi come bilancio complessivo agli occhi di chi abbia partecipato a questo International Meeting: il merito dei singoli contributi ha, ovviamente, toccato una gamma profondamente disugale di valori né i dibattiti sono stati esenti talora da preconcetti o da incapacità di dialogo, d’altra parte l’istantanea che questa settimana ha scattato è quella di un ambito di ricerca ciclopico, ormai radicato in ogni latitudine del pianeta – è stata segnalata in particolar modo quest’anno la presenza di ricercatori asiatici – e spiccatamente creativo. Unica nota parzialmente dolente è stata la ridottissima misura della partecipazione italiana: tralasciando i ricercatori espatriati, le Facoltà Pontificie (interventi dalla Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, dalla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale, dal Pontificio Istituto Biblico e dall’Università Pontificia Salesiana) e i centri di ricerca autonomi (segnalo Luigi Walt e Mara Rescio dal CISSR), solo 7 Università Statali hanno inviato propri relatori: un numero che fotografa l’assoluta marginalità – inesistenza? – degli studi biblici nel panorama accademico italiano. Si diceva nota parzialmente dolente perché in parte riscattata dalla qualità della presenza dell’Università degli Studi di Milano, che ha inviato quest’anno due relatori “d’eccezione”, meritevoli di ricevere una citazione esplicita: Stefano de Feo, con un contributo sul significato della lettura nelle comunità paoline, e Martina Vercesi, con un’importante relazione sulla possibilità di posticipazione della datazione della fonte Q. Partecipazione d’eccezione perché si tratta di due tra i pochissimi – forse gli unici – relatori undergraduate, non ancora in possesso di una Laurea Magistrale, dell’intera assise. A sottolineare questo risultato vi è il severissimo processo di selezione dei relatori, che prevede la valutazione previa di ogni proposta di comunicazione, attraverso il vaglio da parte di un comitato scientifico appositamente costituito per ogni tematica affrontata: si tratta, cioè, di una valutazione di puro merito scientifico. Ecco, gli sforzi compiuti dai Dipartimenti di Studi Letterari, Filologici e Linguistici e di Studi Storici dell’Ateneo Milanese per preservare la didattica delle discipline legate al Nuovo Testamento e alle Origini cristiane hanno consentito a due giovanissimi studenti italiani di predisporre relazioni capaci di non sfigurare con la più blasonata ricerca mondiale: si tratta di una constatazione in effetti agrodolce perché se per un verso inorgoglisce, ricordando lo straordinario potenziale che la formazione accademica umanistica italiana avrebbe, per altro verso richiama il deprimente slalom tra cronico sottofinanziamento, persistente emergenza didattica e assoluta trascuratezza del dato biblico che in questo momento rende risultati come quelli appena citati troppo isolati.