17 settembre 2017: inaugurazione del primo chiostro del Monastero San Benedetto in Monte a Norcia
«La tradizione serve a nutrire il fuoco non ad adorare le ceneri…»«Settembre andiamo, è tempo di migrare». Sto riprendendo il concetto di transumanza nelle classi di questo mio ultimo anno di scuola, con la conosciutissima (un tempo!) poesia di D’Annunzio.
Occorre transumare, passare dal monte al piano e lo si può fare solo su «le vestigia degli antichi padri» che conoscevano il «tratturo antico» che conduce «quasi per un erbal fiume silente» al grido che si leva davanti al baluginio di quel mare «verde come i pascoli dei monti».
E il mare per me, mia moglie e Alessandro, grande fotografo al cospetto di Dio, sarà questa domenica di settembre il lento declivio che dai colli spiana verso Norcia, città murata in cui neppure entreremo perché, alle sue porte, con un’ultima ardita impennata, quasi un guizzo dello spirito, ci sta una cosa nuova…
In questa gloriosa giornata di sole prima del freddo autunnale, davanti a Norcia per tutti gli uomini, tratta dalla devastazione di un terremoto, sorge una cosa nuova, una «porta alla Casa del Dio Padre»: un piccolo funzionale convento benedettino, già abitato…
Un traliccio ligneo, davanti alla piccola chiesa quasi una capanna giottesca, sostiene due campane: una grande, scintillante, sotto il sole terso di questo tardo pomeriggio estivo, l’altra scura, già vissuta, porta i segni di un passato glorioso che vorrebbe consegnare ancora. Penso che non possiamo scordare i rintocchi che hanno risvegliato il nostro cuore per la prima volta quando eravamo piccoli e lo Spirito non trovava i filtri cinici che ci cancellano oggi la realtà.
Ho portato con me un fotografo, come nelle altre mie missioni avevo portato Alberto, uno studente, Giuseppe e Francesco, giovani laureati in cerca di prima occupazione, Davide, grande lavoratore della nostra cooperativa, arrampicatosi qui prima di noi a Natale con un camion per portare una enorme lavasciuga.
Questo settembre tocca a un fotografo perché oggi è tempo di stropicciarsi gli occhi, il tempo di contemplare ciò che gli uomini possono fare pregando…
«Quaerere Deum…» ci ricorda padre Benedetto prendendo la parola con il sole del tramonto negli occhi: è solo così che in un orto di patate può nascere, dopo pochi mesi, la pianta rigogliosa di oggi. E la tradizione serve, ce lo ripete due volte padre Benedetto perché riusciamo ad appuntarcelo, a nutrire il fuoco non ad adorare le ceneri. E qui riparte questa cosa nuova, proprio ora, non ve ne accorgete?
In questi pochi intensissimi mesi, qui è cambiato tutto. A Natale c’era poco più di un presepe tra le due prime casette (il presepe storico era rimasto dentro il campanile caduto e la gente ne aveva regalato uno nuovo) e i pastori erano loro, questi monaci, vestiti di nero o di blu a seconda pregassero o lavorassero. Tracciata per terra qualche linea rossastra, qualche solco, qualche cordino tesato indicava già l’idea di questa cosa nuova che ora visitiamo. Prima però la preghiera dei vespri, lenta e solenne, perché i tempi, anche quando si vorrebbe festeggiare e abbracciarsi, sono di Dio. È Lui che fa nuove tutte le cose e chi si è arrampicato fin quassù lo capisce e attende che la processione, aperta dal crocefisso a stilo, passi per i luoghi che da oggi verranno abitati, ma prima debbono essere benedetti con l’acqua santa da dom Louis Marie venuto per l’occasione dal monastero di Le Barroux in Francia.
Poi è il tempo degli abbracci e dei ringraziamenti e io non mi faccio mancare quello con padre Cassiano che ci venne a trovare alla sagra del pesce questa estate a Chioggia, e con padre Benedetto diventatomi fraterno amico, ironico ed acuto costruttore di relazioni tra gli uomini e tra questi e Dio.
Il discorso di inaugurazione, infarcito di frizzi (nessuno sa sorridere meglio di un monaco sapiente!), si tiene in uno spazio davanti alle due prime casette: parla di famiglia padre Benedetto, in un tempo in cui la famiglia sta dando segni di crisi apparentemente irreversibili, e ringrazia tutti singolarmente in un elenco gioioso di presenze, correndo il rischio, lo dice lui, di dimenticare qualcuno, in realtà facendoci tutti sentire presenti «nei pilastri di questo edificio».
Oggi sono presenti gli amici che hanno lavorato nel fango di questi mesi vedendo crescere giorno per giorno questo delizioso monastero, una cosa tutta da vedere, direi quasi da toccare, con le sue linee essenziali richiamanti la tradizione fin nel piccolo spazio centrale erboso già abitato da una grande tartaruga («festina lente» la battezza subito con arguzia il mio fotografo…).
Marco Sermarini, che si è messo con i suoi uomini di San Benedetto del Tronto al servizio di quest’opera, ed ha coinvolto lavoratori provenienti dalle più svariate realtà di quella rete di opere chiamata Santa Caterina, ringrazia con parole latine che capisce solo lui e per questo riporto e traduco: «Pater meus usque modo operatur et ego operor» che vuol dire che per fortuna c’è qualcuno che sta ancora lavorando e rende possibile ed utile il nostro lavoro…
Seguono i discorsi ufficiali che vedono presenti il vicesindaco che indica nei monaci un punto importante per la salvaguardia di un patrimonio enorme di studi benedettini, la birra Leffe, monastica anch’essa, la Bcc recentemente insediata a Norcia, le maestranze, gli architetti e i tecnici.
I monaci ringraziano con un piccolo concerto suonando il flauto, la chitarra e il clarinetto.
Poi è tempo di birra Nursia ut laetificet cor cioè affinché il cuore ne sia lieto… e noi non ne possiamo godere appieno perché abbiamo il lungo viaggio di ritorno. Così ne portiamo il desiderio che «sapor d’acqua natia rimanga nei cori esuli a conforto…».
Fonte:
Norcia. Ecco la «porta alla Casa del Dio Padre» |
Tempi.it