L’Abortion Care Network (ACN) – una rete di enti e cliniche abortiste – ha reso noto che sempre più cliniche abortiste stanno chiudendo i battenti negli Usa. Negli ultimi cinque anni le cliniche abortiste, non affiliate a Planned Parenthood, sono passate da 512 a 365 a cui occorre aggiungere altre 20 affiliate a Planned Parenthood. Più dell’80% delle chiusure riguarda cliniche in cui si poteva abortire anche dopo il primo trimestre. A guidare la classifica degli Stati in cui si sono chiuse più cliniche è il Texas, seguito da Michigan, California e Florida, quindi non solo stati tradizionalmente considerati conservatori. Arkansas, Kentucky, Mississippi, Missouri, North Dakota, South Dakota, West Virginia e Wyoming hanno solo una clinica privata a testa.
L’ANC ha indicato i motivi di queste chiusure. In prima battuta le leggi pro-life, tra cui tra cui molte che obbligano le cliniche ad essere vicine ad ospedali nel caso in cui ci fosse un’emergenza. In secondo luogo l’attivismo pro-life. Pensiamo solo alla Marcia per la Vita che annualmente si svolge a Washington sin dal 1974 con la partecipazione di alcune centinaia di migliaia di persone. In terzo luogo il taglio dei finanziamenti statali.
E’ innegabile che a fronte di un rilevante dinamismo sociale, culturale e politico in merito alla battaglia sull’aborto in terra americana, corrisponde sul suolo italico ed anche europeo un silenzio pressochè totale ed assai assordante. Quali sono le ragioni? Proviamo ad indicarne qualcuna.
In prima battuta negli States i contenuti sono chiari e di conserva anche le posizioni culturali e politiche assunte dagli attori in gioco. Nel dibattito americano si chiamano le cose con il loro nome: l’aborto è un omicidio ed è per questo che se ne chiede la delegittimazione (seppur per il tramite di modalità non sempre eticamente condivisibili). Da qui nasce lo scontro anche vivace tra le posizioni in campo: basta ricordare uno dei confronti televisivi tra Trump e la Clinton sul tema dell’aborto a nascita parziale. In Italia, ma anche in Europa, sarebbe quasi impensabile che in un dibattito elettorale entrasse simile tematica.
Se negli Usa parliamo di attivismo pro-life, da noi dovremmo parlare di passivismo pro-life. In buona sostanza il convincimento morale che l’aborto è un assassinio deve rimanere confinato nella coscienza individuale, non diventare problema sociale né tanto meno politico. Si cerca allora di smussare gli angoli, di trovare punti di incontro, di difendere la legge 194 per evitare sue derive che puntualmente si sono verificate (vedi l’aborto chimico con pilloline varie). Chi si professa per la vita – ovviamente con considerevoli e significative eccezioni – in genere ha messo nel cassetto proprio il problema principale: l’aborto stesso. La sua non è più nemmeno una battaglia di retroguardia – proporre qualche leggina che sposi il male minore – ma è diventata un vero e proprio tradimento alla causa, un consegnarsi al nemico con mani e piedi. Non solo si sono adottate le categorie morali e giuridiche dei sostenitori dell’aborto – la tutela della vita della donna, il principio di autonomia, etc. – ma si cerca di silenziare l’autentico attivismo pro-life, insistendo sul dialogo – inteso come approvazione delle tesi del nemico così andiamo a casa tutti pacificati – e su ciò che unisce e non su ciò che divide e incensando le posizioni equilibrate, non divisive perché “l’aborto è un dramma sociale per tutti ed è meglio non riaprire vecchie ferite”. Purtroppo non ci sono solo le vecchie ferite, che se fanno ancora male ci dovrà pur essere un motivo, ma soprattutto quelle fresche: i bambini che a centinaia muoiono ogni giorno.
In secondo luogo negli Usa non c’è il timore di confessionalizzare il tema della tutela della vita nascente, di dichiarare di essere contrari all’aborto perché è un crimine ai danni dei diritti di Dio e vietato dalla sua legge. In Europa, se va bene, il dibattito sul tema della vita si articola solo su un piano razionale – vita come bene indisponibile, dignità della persona umana, etc. – o giuridico-politico – diritto alla vita come diritto da riconoscersi a tutti gli esseri umani, etc. Non si esclude che tale strategia possa essere anche vincente dato che per gli interlocutori le motivazioni di carattere trascendente non avrebbero peso e dato che per anni il fronte pro-choice ha insistito furbamente sul fatto che il no all’aborto era un mero pregiudizio fideistico, un obbligo morale valido solo per il credente. Ma la lezione made in Usa ci dovrebbe far riflettere che forse è arrivato il momento di gridare come San Paolo: “Non conosco che Cristo e Cristo crocefisso” ( 1 Cor, 2,2).
Non scivoleremmo nella teocrazia dove gli obblighi di fede diventano obblighi civili, ma nella regalità sociale di Cristo in cui, come accade negli States, l’appartenenza religiosa informa prima di tutto la cultura – essere cristiani significa essere attori culturali e non miserande comparse – poi l’attivismo pubblico relativo anche ai temi moralmente sensibili ed infine sostanzia la stessa politica perché convinti che Cristo Re deve estendere la sua signoria su tutte le realtà temporali, istituzioni pubbliche comprese. Da noi la giusta distinzione tra potere spirituale e temporale è diventata separazione incomunicabile tra i due ambiti (uno degli oscuri esiti del laicismo). Di contro al di là dell’Atlantico non pochi intellettuali e politici cristiani sono persuasi che la distinzione di competenze non esclude che l’ambito politico possa ispirarsi non solo ai principi della morale naturale ma anche a quelli di fede. La non esclusione di Dio a livello pubblico nella battaglia per la vita ha fatto acquistare al fronte pro-life un Attivista che, dati alla mano, forse sta facendo la differenza sul campo.
Fonte: Tommaso Scandroglio | LaNuovaBQ.it