Il 6 ottobre 2002 veniva canonizzato il fondatore dell’Opus Dei. Chi era san Josemarìa Escrivà che Papa Giovanni Paolo II definì “il santo dell’ordinario”? In Terris lo ha chiesto a don Matteo Fabbri, vicario per l’Italia della Prelatura.
“San Josemarìa era un padre. Così lo chiamavano i suoi figli spirituali e così lo chiamano anche quelli che, come me, non hanno avuto la grazia di conoscerlo di persona. Abbiamo però potuto cogliere dai suoi scritti, dai filmati di alcuni incontri di catechesi familiare tenuti negli ultimi anni della sua vita, da tanti racconti di quelli che lo hanno conosciuto e hanno vissuto e lavorato con lui, che aveva una profonda percezione della sua paternità e cercava di manifestarla ‘con cuore di padre e di madre’, come gli piaceva dire, anche in particolari minuti di attenzione e cura verso la persona intera, anima e corpo. Gli piaceva dire che per essere ‘divini’, cioè identificati con Cristo e trasformati come figli nel Figlio dalla grazia divina, dobbiamo essere molto umani. Ci esortava a volerci bene vicendevolmente attraverso gesti concreti e lui stesso viveva così: si interessava, chiedeva, ricordava”.
In piazza 15 anni fa c’erano decine di migliaia di persone. Qual è il suo ricordo?
“Ricordo la gioia traboccante di quel giorno. Non era semplicemente la soddisfazione per un traguardo, era una gioia con radici profonde, accompagnata da un forte senso di speranza. San Josemarìa è diventato santo praticando la sequela di Cristo secondo un cammino specifico, lo stesso che, per grazia di Dio, tante persone nei cinque continenti percorrono e che io stesso sto vivendo: dunque una conferma esplicita che questo cammino riconosciuto dalla Chiesa può portare all’incontro definitivo con Dio, se ciascuno di noi si lascia trasformare da Lui, accoglie i suoi doni, risponde alle sue continue chiamate alla conversione. Penso che la gioia di quel giorno fosse il frutto anche di un’esperienza di comunione fraterna ed ecclesiale molto forte: c’erano persone da tutto il mondo, di condizioni, età, mestieri, molto diverse. Sicuramente anche diverse nel loro rapporto con Dio, con la Chiesa. Ma tutti che si sentivano figli di Dio. Al termine di una delle cerimonie di quei giorni il Papa San Giovanni Paolo II ha voluto accogliere il Patriarca romeno Toktist, e unirlo alla sua benedizione sull’assemblea. Fu un’esperienza ecumenica toccante”.
S. Josemarìa è stato un personaggio molto amato o molto osteggiato: perché?
“I santi sono spesso segno di contraddizione. Molto amati e molto osteggiati. E’ sorprendente notarlo in tante biografie di persone elevate dalla Chiesa agli altari. Spesso anche all’interno della stessa Chiesa. Pensiamo alle prove che ha dovuto soffrire Padre Pio, o alle incomprensioni che ha sofferto don Bosco da parte del Vescovo di Torino. Non ci meraviglia, perché Gesù per primo è stato segno di contraddizione e ha messo in evidenza anche la volubilità dei giudizi umani: ‘E’ venuto Giovanni, che non mangia e non beve, e dicono: è indemoniato. E’ venuto il Figlio dell’uomo, che mangia e beve, e dicono: ecco, è un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori. Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie’. Così è anche per i santi: alla lunga le loro opere parlano della loro santità. Inoltre san Josemarìa è stato portatore di un messaggio che era oggettivamente innovativo: penso che sia normale che, in qualunque ambiente, anche nella Chiesa, una novità susciti interrogativi, e anche incomprensioni. Egli stesso poi diceva di avere ‘un caratteraccio’: cioè un carattere forte. Penso che sia stato necessario per portare avanti il compito grande che Dio gli aveva affidato; forse questo ha causato qualche difficoltà: ricordo d’altronde episodi che lui stesso raccontava, su come chiedeva scusa per aver trattato duramente qualcuno, e sapeva recuperare con affetto paterno”.
Pochi giorni fa, il 2 ottobre, è stato l’anniversario della fondazione dell’Opera. Se dovesse descriverla in poche parole, come la definirebbe?
“Si potrebbe dire con parole di Escrivá: si sono aperti i cammini divini della terra. Cioè ogni vicenda umana, nel bel mezzo del mondo, è una strada per incontrare Dio. Ogni strada umana, ogni ambiente familiare, sociale o di lavoro, è cammino di Emmaus. Oppure ancora: possiamo cercare ogni giorno qualcosa di divino che è nascosto, come il tesoro nel campo, nelle cose più ordinarie, più quotidiane, più banali. Il fondatore definiva l’Opus Dei un’organizzazione disorganizzata che si propone di aiutare le persone a vivere questo ideale nella vita di tutti i giorni. Ancora: santificazione del lavoro e santificazione dell’amicizia. Una persona dell’Opera è chiamata a fare il bene lì dove si trova. Ciascuno per conto proprio, spesso in ambienti molto diversi e con convinzioni e opinioni diverse rispetto alle altre persone dell’Opera. Però si è ‘fratelli’ nel senso di sentirsi spiritualmente con le spalle coperte dall’affetto dei propri fratelli. In questo modo costituiamo un ‘insieme’ pieno di autonomia e di indipendenza reciproca ma con una vicinanza e una stima che vanno al di là di quello che si fa, perché partono da quello che si è: siamo membri della stessa famiglia. Come avviene per i miei fratelli della mia famiglia d’origine rispetto ai quali io sarò sempre vicino a prescindere da quello che fanno, quello che pensano, quello che sono”.
In molti ambienti l’Opera è ancora vista con sospetto, come una lobby di potere, quasi una sorta di massoneria bianca. Come stanno realmente le cose?
“Prima le dicevo dello spirito di famiglia che ci caratterizza e che cerchiamo di alimentare continuamente. Questo non significa nel modo più assoluto costruire accordi di tipo economico, politico o lobbies di potere. Anzi, questo ci impegniamo tutti ad evitarlo in modo inequivocabile. Lei mi chiede perché invece qualcuno lo pensa. Forse per una diceria diffusa in Spagna negli anni ’40. Forse perché siamo ancora un fenomeno nuovo, anche se l’idea che un fedele laico sia davvero responsabile in prima persona della propria azione nel mondo e della propria azione apostolica e pastorale, senza agire su mandato della gerarchia, è ormai una realtà diffusa e riconosciuta esplicitamente dal Magistero a partire dal Vaticano II. Penso all’insegnamento su questo punto della ‘Christifideles laici’ di Giovanni Paolo II, o agli interventi illuminanti di Papa Francesco in molte occasioni. Diverso è quanto e come si riesce a vivere questo insegnamento. Noi lo richiamiamo a noi stessi e cerchiamo di approfondirlo e di aiutarci. Il prelato ci incita in questo senso continuamente. So che alcuni che hanno un mentalità di gruppo e non ci conoscono da vicino tendono a pensare che ci sia un nesso tra attività professionale di uno dei fedeli dell’Opus Dei e i dirigenti dell’Opera. Ma le posso assicurare che non è così. La dedizione dei dirigenti è tutta tesa esclusivamente ad assicurare formazione cristiana e preparazione a essere testimoni nel mondo. In questo ci sentiamo aiutati e sostenuti dal magistero di Papa Francesco, dall’Evangelii Gaudium che studiamo e raccomandiamo: una Chiesa in uscita, la gioia di evangelizzare, il tempo che è superiore allo spazio, non occupare spazi, iniziare processi che col tempo daranno frutti di miglioramento delle persone e dalla società, valorizzare molto la responsabilità personale di ciascuno”.
Qual è il “segreto” dell’Opus Dei?
“Al nostro fondatore non piaceva che si parlasse di segreto. Amava solo quello della confessione, e la riservatezza della direzione spirituale e quella naturale dell’amicizia o dei dialoghi familiari. Però se lo intendiamo nel senso che intende lei, di ciò che conta davvero e che sta alla base della nostra gioia, allora direi che il ‘segreto’ dell’Opus Dei è che siamo chiamati a trasformare il lavoro, l’amicizia e la famiglia in preghiera, in contemplazione di Dio che sta sempre accanto a noi, anzi dentro di noi”.
E’ vero che i rapporti tra l’Opus Dei, considerata in un certo senso “tradizionalista”, e Papa Francesco non sono poi tanto buoni?
“Ci tengo a precisare che l’Opus Dei non è tradizionalista, nel senso che si dà comunemente a questa parola. Prima del Concilio Vaticano II eravamo considerati all’avanguardia: un ecclesiastico della curia romana disse alla fine degli anni Quaranta che eravamo arrivati con cent’anni di anticipo. Certamente nel clima che si creò nel post concilio san Josemaría adottò un atteggiamento di prudenza nei confronti di un certo modo di concepire il cambiamento ‘tanto per cambiare’. Ricordo che nell’Opus Dei, così come c’è tutta la libertà di cui gode ogni cattolico nell’opinabile delle scienze, delle arti e della politica, c’è, sempre in unità con l’insegnamento della Chiesa, libertà di pensiero teologico, liturgico, pastorale, ecc. Amiamo il Papa, preghiamo per lui, seguiamo il suo magistero e ce ne nutriamo per ravvivare la nostra vocazione. Penso ad esempio al bene immenso che ci ha fatto l’Anno della Misericordia: abbiamo ricordato gli insegnamenti del fondatore in questo ambito e ci siamo impegnati a crescere nel vivere opere di misericordia spirituale e corporale: questo impegno sta proseguendo, ed è una ricchezza stupenda. Il Papa ha più volte e pubblicamente manifestato il suo affetto e la sua riconoscenza per l’attività apostolica dell’Opus Dei, per il lavoro di ecumenismo che facciamo in particolare in alcune nazioni, ha beatificato il successore di Escrivà (mons. Alvaro Del Portillo, ndr), ha nominato vescovi vari sacerdoti dell’Opera, è amico personale di alcuni membri dell’Opera, è devoto di san Josemaría: davanti alla sua tomba, da cardinale, pregò in ginocchio per quaranta minuti per ringraziarlo di un favore ricevuto. Alcuni cattolici, è noto, non capiscono il Papa. Sono una minoranza anche se si fanno molto sentire sui social. Alcuni di questi sono anche membri dell’Opera e cerchiamo di aiutarli, comprendendo il loro travaglio, a chiedere luci allo Spirito Santo per capire il Papa: l’unità con il successore di Pietro, anche nel caso in cui ci può essere differenza di sensibilità, è decisiva per ogni cattolico e per ogni fedele dell’Opera. La maggioranza dei cattolici italiani a mio avviso è entusiasta del Papa: per esempio a Milano (dove vive il vicario per l’Italia, ndr) è stato accolto in modo straordinario”.
Nel dicembre scorso è scomparso mons. Javier Echevarría. L’attuale prelato, mons. Fernando Ocariz, è il primo non “formato” direttamente da S. Josemaria. E’ cambiato qualcosa?
“Storicamente sì: i due primi successori di Escrivà avevano avuto molta consuetudine con lui. Come ha detto recentemente mons. Mariano Fazio, il vicario generale dell’Opus Dei: ‘Stiamo vivendo un momento di grande unità e mantenendoci molto fedeli allo spirito dell’Opera, però siamo anche in un momento di fedeltà dinamica, perché i tempi cambiano e l’Opus Dei è un corpo vivo che cambia con i tempi’. È normale che ciò avvenga nella Chiesa. D’altra parte Papa Francesco sta imprimendo a tutta la Chiesa una grande svolta pastorale: noi stiamo cercando di seguirlo nel suo impulso, cioè stiamo vedendo come ravvivare e rinnovare certi modi apostolici rimanendo fedeli al nostro carisma. Il fondatore stesso lo dichiarava: lo spirito dell’Opera va mantenuto nella sua essenza ma cambiano i modi di agire, di esprimersi, perché cambiano i tempi. Nel primo incontro col nuovo prelato il vescovo di Roma ci ha affidato direttamente ‘le periferie delle classi medie’ e stiamo chiedendoci come assecondare questo impulso che siamo convinti venga dallo Spirito Santo”.
Il prossimo anno l’Opera festeggerà 90 anni. Sembrano tanti ma per un’istituzione della Chiesa non sono poi molti: ci sarà una preparazione particolare per questo anniversario?
“La preparazione più importante è quella di ciascuno. Questi anniversari in fondo ci ricordano quanto l’Opera sia giovane. Chiedo al Signore che si mantenga sempre una perenne giovinezza: la spontaneità di una realtà viva. Oltre a ciò stiamo provando a promuovere in Italia qualcosa di concreto per rendere visibile che anche l’Opera è quella Chiesa in uscita di cui parla il Papa. Abbiamo accolto subito con gioia il compito di farci carico di una parrocchia importante di Milano con gente ricca e gente povera, vicina a tutte le stazioni ferroviarie con un centro di ascolto molto attivo. A Roma, dove da decenni è attivo il Centro ELIS nel quartiere Tiburtino, è stata avviata una scuola aperta tutto il giorno per giovani disagiati (in particolare molti sono bambini migranti): in questo 90° vogliamo incoraggiare più iniziative e far sì che ciascuno pensi ‘io, nelle mie circostanze, che cosa posso fare per portare il Vangelo a tutte le periferie?’. Periferie sociali, esistenziali, ma anche culturali”.
Qual è la sfida prioritaria da affrontare oggi per l’Opus Dei?
“Centralità di Cristo e perseveranza (ovvero che non si perda con il passare degli anni il riferimento sorgivo al carisma, e all’incontro con Cristo che ci ha portato a intraprendere questo cammino), e dinamismo apostolico personale. Poi famiglia e giovani. Dobbiamo essere sempre di più ‘persone con il Vangelo in mano’ come è stato detto da Papa Francesco: il Vangelo della vita quotidiana e nella vita quotidiana. Il Vangelo vissuto con coerenza, perdendo la paura di giocarsi la vita per questo”.
Fonte: Andrea Acali | InTerris.it