Qualche giorno fa un collega supercattolicone, di quelli che non si perdono un discorso del Papa e hanno le encicliche sul comodino e Introduzione al cristianesimo sotto il cuscino, ha detto a un amico convivente – non divorziato, convivente e basta – che in fondo se non se la sente perché dovrebbe sposarsi, che alla fine non conviene neanche fiscalmente, “tanto Papa Francesco con Amoris laetitia sta facendo molte aperture sulle convivenze”. Se la pensa così il collega superformato, cattolico, colto e catechizzato, possiamo esser certi, come ognuno di noi lo è, che l’uomo della strada ha già archiviato la pratica da tempo. “Il matrimonio non cambia molto le cose se c’è un sentimento sincero, la volontà di aiutarsi ed essersi fedeli”, questa purtroppo è la ricezione di Amoris Laetitia.
Ma io sono stata bravissima. Non ho tirato fuori la katana col mio collega. Non ho emesso vapori come un geyser dal naso, Sembravo padrona di me. È che se mi arrabbio finisce sempre che mi becco della “rigida” della farisea, della fratella maggiore. Adesso sono tranquillissima, lo assicuro, me la sento. Vorrei spiegare questo.
I farisei sono quelli che dicono che in fondo in fondo non è necessario sposarsi. Perché significa che sono convinti che il rispetto di un vincolo sia un peso, e dimenticano la dimensione della grazia del sacramento, che è la cosa più importante di tutte. Noi “rigidoni” al contrario pensiamo che stare dentro al sacramento sia una grandissima fortuna, un privilegio, qualcosa che ti protegge, custodisce, che ti salva prima di tutto da te stesso, qualcosa attraverso la quale un Padre buonissimo entra nella tua vita e ti prende in braccio. È vero, lo sappiamo persino noi che Dio agisce dove vuole, anche nelle convivenze, ma se non gli diciamo sì lui non può farlo, perché per lui la nostra libertà è sacra, e gli è più cara persino della nostra salvezza.
Chi continua a invocare un abbandono delle regole, beh, è lui che ragiona come il fratello maggiore della parabola del padre misericordioso, cioè quello che obbedisce ma in fondo in fondo je rode, mal sopporta il peso, non accorgendosi del fatto che stare tutto il giorno a servire nella casa del padre non è un merito né tanto meno un peso, ma un privilegio. Noi non temiamo la fluidità e l’incertezza perché ci sentiamo fratelli maggiori, ma al contrario le temiamo perché, da fratelli minori che tante volte hanno sbagliato cercando di fare di testa propria e andando a dilapidare gli averi in giro, sappiamo quale privilegio sia stare nella casa del padre, e desideriamo condividere con tutti questa enorme grazia. Per questo io vado in giro a cercare di convincere le mie amiche a sposarsi, gli amici a perdonare una moglie che ha tradito, le coppie a ricominciare. Non mi sognerei mai di dire a un’amica che se c’è il sentimento è lo stesso. Le direi, le dico, che senza la grazia di Dio non ci si può amare davvero, e tanto meno per sempre.
No, non mi sento una sorella maggiore. Mi sento una miracolata, una baciata dalla grazia, una mantenuta, una privilegiata perché nonostante tutto il mio disastro, il mio peccato, il mio essere insopportabile, sono ancora qui. So che nel sacramento si compie la mia vocazione e quindi la mia felicità. Non mi permetterei mai di fare nessuna apertura sulle convivenze a nessuna amica. Mai. Chi sono io per togliere a un fratello,a una sorella, il privilegio di un rapporto con Dio nella grazia, unica fonte di felicità? Significherebbe che non ci crederei davvero, al fatto che quello è il solo modo per vivere in pienezza. E i sacerdoti che si permettono di non annunciare questo stanno tradendo la parte più essenziale della loro consegna.
Fonte: CostanzaMiriano.Blog