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Corea cristiana: l’imperdibile mostra che vi state perdendo
— 23 Ottobre 2017— pubblicato da Redazione. —
Ero in apprensione, stamattina, mentre salivo in moto e guardavo l’orologio: «Caspita – mi dicevo – la mostra apre alle 10 e io sono ancora qui… chissà se riesco a entrare prima di pranzo… capirai, poi oggi è sabato…».
La nostalgia delle code ai musei…
«L’immagine che il mondo ha di Seul è probabilmente quella della Guerra di Corea, dell’industrializzazione, del movimento per la democrazia, dei Giochi Olimpici del 1988, del tifo in strada per i Mondiali, delle fiaccolate di protesta, del K-pop, delle tecnologie informatiche, ecc. Ma non molti sanno che la Corea ha un significato molto importante nel mondo cristiano» […].
Mai avrei voluto essere tanto disilluso: di fronte all’ingresso del Braccio di Carlo Magno1 non c’era nessuno – e io prima di pensare che davvero nessuno fosse lì in fila per entrare ho chiesto al gendarme se la mostra fosse stata improvvisamente sospesa. «No, si figuri: è aperta! Quello è l’ingresso»
Nel corso della visita, fortunatamente, ho potuto vedere che alla spicciolata qualcuno veniva, ma per me che avevo appena attraversato l’Urbe tappezzata di manifesti pubblicizzanti l’ennesimo allestimento di Bodyworlds2 e l’imminente concerto di Giovanni Allevi3, trovare una densa e composta fila sarebbe stato perfino una consolazione.
L’anomalia coreana
La Corea mi affascina da quando ne lessi qualcosa in un manuale di storia della Chiesa Moderna: a tutt’oggi non si sa di un caso analogo, nell’intera vicenda cristiana nota – se si eccettua quello dell’evangelizzazione dell’Etiopia4 – cioè di un Paese che abbia accolto il cristianesimo prima di aver ascoltato l’annuncio del Vangelo. Forse neanche san Paolo, che ai Romani retoricamente chiedeva “come ne sentiranno parlare, senza qualcuno che lo annunci?” (Rom. 10,9-18), poteva sognare che nella seconda metà del XVIII secolo una delegazione di intellettuali del regno di Joseon sarebbe partita da Hanyang alla volta di Pechino per raccogliere elementi di riflessione su come la grande Cina stesse a sua volta affrontando la comune crisi culturale segnata dall’involuzione del neoconfucianesimo. E di lì sarebbero tornati carichi di oggetti e di libri: tra i primi cannocchiali, telescopî, carte geografiche… tra i secondi trattati di etica, di filosofia, testi cristiani.
E non fu un’infatuazione: i coreani non cercarono rifugio dall’imminente collasso culturale nelle “magie di moda delle religioni occidentali” (quasi che da parte nostra noi vivessimo oggi un ricorso storico), ma si disposero pazientemente allo studio delle novità, per discernere se dalla loro accoglienza ne sarebbe potuto venire del bene al loro Paese.
Gli incontri di studio presso il tempio Jueo, nelle vicinanze della capitale Hanyang, durante l’inverno del 1779.
Nell’inverno del 1779, dei giovani intellettuali confuciani della scuola di Silhak si trovarono in un monastero poco distante dalla capitale del regno, per studiare e valutare con acribia i testi occidentali. Tra questi c’erano naturalmente bibbie, opere catechetiche (perlopiù scritte da giganti come Matteo Ricci), messali, lezionarî, testi liturgici e canonistici, insomma tutto l’occorrente per mandare avanti una Chiesa. E la dottrina contenuta in quei testi parve ai giovani intellettuali tanto bella, tanto grandiosa e tanto rispondente alla logica e alla natura umane, che dopo attenta valutazione decisero di applicarla. Ovvero di costruire una Chiesa.
Questo vuol dire che anzitutto si battezzarono tra di loro (e il primo “battezzatore” coreano era stato battezzato a Pechino da un missionario), ma che subito dopo si disposero in una struttura gerarchica locale, così da poter celebrare i sacramenti e i riti che trovavano minuziosamente descritti nei libri portati in patria. Si resero ben presto conto che il loro zelo, benché non fosse stato frettoloso, li aveva portati a commettere degli abusi – certamente ridimensionati dall’eccezionale buona fede, ma a cui nondimeno bisognava apporre correzione –, quindi presero a scrivere a Pechino e a Roma per avere un vescovo e dei sacerdoti con cui procedere al completamento dell’implantatio Ecclesiæ in Corea. I viaggi erano lunghi e irti di pericoli d’ogni genere, per terra come per mare: una lettera poteva impiegare anche due anni per tornare indietro, se la risposta era tempestiva – insomma solo nel 1831 Gregorio XVI avrebbe risposto, commosso, costituendo immediatamente il vicariato apostolico di Corea.
Fino ad allora (ma anche dopo, per poco più di cento anni dall’arrivo del cristianesimo in Corea) la Chiesa sarebbe stata flagellata da persecuzioni tanto feroci che più di diecimila martiri sbocciarono davanti a Dio e agli uomini. Quei martirî li avrebbero celebrati Pio XI nel 1925, Paolo VI nel 1968, Giovanni Paolo II nel 1984 e Francesco nel 2014: forse solo nelle reducciones del Paraguay5, con pochi decennî di anticipo sui fratelli dell’estremo Oriente, si poté vedere in età moderna una tanto vasta messe di testimoni di Cristo – del resto è difficile non pensare, sfilando davanti al cartellone con la scritta “Come in cielo così in terra”, all’immortale colonna sonora scritta da Ennio Morricone per The Mission.
Lì come qui: missionarî e indigeni (o indigeni e missionarî), comunità straordinariamente fiorenti che vivono per la prima volta nella storia i fermenti del Vangelo, interessi mondani che portano a frizioni cruente. Sangue e gloria: ecco “il vero significato del Signore del cielo”6.
Come Cristo liberò la Corea dagli “dèi falsi e bugiardi”
In questo nostro frangente storico – in cui la cattiva coscienza degli sfruttatori del mondo sbuffa qua e là dai brufoli del grasso Occidente in forma di deprecazione per la propria storia (vedi l’insipiente censura del Columbus Day di quest’anno negli Usa) è in definitiva di insofferenza per tutto il proprio portato culturale – “confucianesimo” è poco più di una parola esotica da esibire disinvoltamente durante un aperitivo in società. Scoprire invece che in giro per l’Asia ci sono posti dove induisti, scintoisti e buddisti massacrano ancora oggi i cristiani sarebbe un evento traumatico suscettibile di fermare l’olivetta all’altezza dell’epiglottide – difatti ci si guarda bene dall’informarsi in merito –: l’esposizione ha il merito di illustrare nel dettaglio come storicamente il cristianesimo piacque in Corea perché corrispondeva praticamente in toto alla dottrina di Confucio, ma in più conteneva quel quid per cui l’uomo viene reso veramente capace di desiderare e di compiere il bene7. È riportato lì nell’allestimento un documento che conferiva cariche pubbliche in cui evidentemente il nome era stato aggiunto in un secondo momento… tale era la corruzione, pubblica e privata, che per raggranellare i soldi necessari a mandare avanti la baracca lo Stato era arrivato a vendere correntemente le cariche pubbliche – cosa che, come facilmente si immagina, non aiutò se non nel brevissimo periodo, mentre già sul medio aggravò la già critica situazione.
E invece – ritenevano i giovani intellettuali raccoltisi a studiare il cristianesimo in quell’inverno del 1779 – la fede cattolica avrebbe potuto davvero aiutare a debellare la corruzione e i malcostumi. Questo anzitutto con la bella notizia di un vero Dio che è venuto a cercarci e nel redimerci non ha fatto distinzioni di classi sociali (il confucianesimo suppone e consolida invece una rigida segregazione di classe), ma non solo: la religione civile aveva elevato i genitori al livello della divinità, e si era intromessa a normare rigidamente le forme e i riti di quella venerazione. Risultato: il Dio propriamente detto era stato evacuato – perché non era più “totalmente altro” –, la famiglia era stata snaturata da quella strumentale apoteosi e lo Stato era riuscito a insinuarsi nel cuore delle relazioni tra padri e figli. Basti pensare che la prima persecuzione cominciò, nel 1801, quando un fedele – venendo a sapere della proibizione romana di celebrare i culti degli antenati – bruciò le tavolette dei suoi genitori, che invece avrebbero dovuto essere conservate e venerate per tre generazioni ancora dopo di lui. Il dialogo del relativo processo (riportato in un pannello dell’allestimento) è quanto mai indicativo:
– Come hai potuto compiere un atto così empio come bruciare le tavolette sacre?
– Ma vi pare possibile che avrei mai bruciato quegli oggetti, se davvero fossero stati i miei genitori? Sono solo pezzi di legno…
Ed è chiara anche la ratio di Roma, che normalmente si mostrava piuttosto indulgente con le usanze locali, anche se bizzarre (purché non contraddicessero frontalmente il Vangelo): il risultato di quel sistema, però, era un totalitarismo di fatto ateo – la Santa Sede non poteva tollerarlo, i cattolici coreani fecero corpo attorno alla decisione romana e il potere secolare coreano (poiché la questione era tutt’altro che sciocca come ai nostri sciocchi tempi può apparire) non poteva mostrarsi debole. Fino al 1801 aveva sì regnato un re che – pur non guardando al cristianesimo con simpatia – riteneva che le esterofilie degli scontenti si sarebbero spente da sé una volta che il neoconfucianesimo avesse avviato un’autentica riforma. Non sapremo mai se aveva ragione: quel re morì, il successore scese la linea dello scontro e la storia andò in tutt’altra direzione.
I paradossi della Chiesa in Corea
Tutti conosciamo la massima di Joseph De Maistre:
Il cristianesimo è stato predicato dagli ignoranti e creduto dai dotti, e in questo non assomiglia ad alcunché di noto.
Proprio mentre il pensatore ultramontanista pensava e scriveva questa verità, essa accadeva una volta di più in Corea, e tale paradosso originario della predicazione apostolica ha prodotto tutta una serie di inusitate rivoluzioni.
Un movimento intellettuale e popolare
I dotti che avevano creduto agli ignoranti tornarono a parlare ad altri incolti, i quali credettero e crebbero in uno stile di vita veramente rivoluzionario: le persecuzioni spinsero i cristiani a costruire villaggi sulle montagne – tra quelle cime i fedeli coreani si dicevano ed erano beati, perché la lieta povertà della Chiesa nascente li riempiva di gioia. Il visitatore della mostra si trova a un certo punto davanti alla copia ottocentesca – vergata per mano di padre Achille Paul Robert M.E.P. – dell’ultima lettera di sant’Andrea Kim Dae-geon ai fedeli di Joseon. Accanto a questo si trova esposto un vero autografo del giovane sacerdote coreano martirizzato nel 1846: è una lettera dal carcere in cui si racconta ciò che accade e si illustrano le torture subite dai fedeli. Il venticinquenne prete coreano la scrisse in uno scorrevole latino.
Un approccio culturale e sociale
Proprio perché la fede non fosse superstizione e non restasse appannaggio di quanti avevano disponibilità e capacità di studio, i fondatori della Chiesa in Corea produssero e promossero lo sviluppo di un alfabeto semplificato (hangŭl), non più ideografico, che poteva essere rapidamente imparato anche da donne e bambini1.
Più avanti la Chiesa avrebbe prodotto un settimanale cattolico (Il nome “Gyeonghyang” significava “urbi et orbi”) che programmaticamente rinunciava ai nobili caratteri cinesi e veterocoreani per dedicarsi all’istruzione del popolo. Oggi tutto ciò che è derivato da questo prodotto si chiama semplicemente “coreano”.
La sfacciata dignità della donna
Il visitatore della mostra si trova poi di fronte al ritratto di una bella donna sulla quarantina: in effetti aveva precisamente quarant’anni, King Wan-suk, quando fu martirizzata (anche lei nel 1801). Ciò per cui era già nota prima del martirio, però, era il suo essere presidente del Myeongdohoe2: nella società confuciana le donne non erano neppure abilitate ad avere parte in causa nelle classi, e vi risultavano esclusivamente per il collocamento in esse dei mariti o dei padri3.
Non c’è costo e anzi: la mostra vale il viaggio
Ora qualcuno si starà comprensibilmente chiedendo a che si debba la mia “sviolinata” in favore della mostra: non ho interessi economici, come si capisce (se non ha un qualche senso l’idea di ricevere una percentuale su un biglietto gratuito), e tantomeno godo di agganci “politici”. Quello dell’evangelizzazione della Corea è però un caso paradigmatico da molti punti di vista, e farebbe bene a tutti conoscerlo un poco.
Col cuore in mano ve lo dico: andate a vedere la mostra, se siete di Roma; veniteci se non lo siete (quasi mi metto a pagare la trasferta a chi dopo averla vista si dichiarasse scontento). Se siete insegnanti, catechisti, parroci, genitori, prendete in considerazione l’idea di una visita di gruppo: a parte il fatto che la Corea smetterebbe di essere concepita come “un mero nome a cui naturalmente dovrà essere collegato un posto, da qualche parte”, si chiariranno molte dinamiche sempreverdi del mondo ecclesiale, e le capacità di analisi e di sintesi si faranno tanto più fini e duttili quanto meno teorica e astratta sarà stata espressa la proposta del Vangelo.
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