Andare al cinema è sempre un’esperienza formativa, anche se il film in questione è “It” (avrei molte domande da fare ad Andrés Muschietti). La sala è piena ma, nonostante il film sia vietato ai minori di 14 anni, l’età media è tremendamente bassa. Non è la sede per interrogarsi sul ruolo dei genitori nella scelta del titolo, e neppure sulla loro assenza in sala. Non è la sede per discutere le scelte commerciali del cinema, anche se la crisi (drammatica) del settore non giustifica la vendita dei biglietti con le fette di salame sugli occhiali 3d.
La cosa che colpisce di quella sala così giovane è il movimento. Continuo, irrefrenabile, incontrollabile. Dalle file più alte l’immagine è quella di una marea solleticata da un impetuoso vento del nord, solo che i pesci hanno tutti lo smartphone acceso. E durante le scene più crude? Non un sobbalzo, non una sorpresa, non un grido. Accanto a me ci sono quattro amici, sui quindici anni. A loro tutta la mia stima: guardando il film contemporaneamente chattano e giocano con lo smartphone, concedendosi ogni tanto una non posticipabile ricerca su internet.
Molto probabilmente hanno seguito il film anche meglio di me, che ho la brutta abitudine di nascondermi dietro il giubbotto quando la musica si fa ansiogena. Ma il punto è: hanno vissuto? Avranno ricordi particolari e unici della serata (no Muschietti, non dico grazie a te)? La battuta dell’amico, lo spavento che si scioglie in risata, il trancio di pizza mangiato in macchina mentre fuori il cielo si tinge di rosso? Perché questo multitasking compulsivo che porta a fare (male) quattro cose in contemporanea, che ci fa credere “smart” perché non lavoriamo più in un ufficio in mezzo a colleghi ma in macchina o in treno, correndo da una città a un’altra, che ci fa parlare cinque lingue senza più cogliere alcuna sfumatura di significato, che ci fa incontrare ogni giorno dieci persone diverse senza conoscerne nessuna, che ci fa sentire una montagna di parole senza ascoltarne nemmeno una, che ci fa sembrare liberi ma poi ci lascia soli con uno smartphone in mano, a me sa tanto di fuffa. Una fuffa però a suo modo efficace, perché capace di spegnere la sete d’infinito che abita nel cuore di ciascuno.
L’adolescenza è una fase delicatissima, perché il cuore è agitato da interrogativi insormontabili, da ferite insanabili, da scommesse inarrivabili. E la ricerca di verità, a volte, può portare anche alla Verità. Per questo il dominio di un mondo digitale prevedibile e guidato sulla realtà quotidiana ha qualcosa di profondamente antiumano. Nega la possibilità dell’incontro con l’altro, impedisce il contagio delle vite altrui. Spegnere i sentimenti è un passaggio fondamentale (anche la paura a volte fa bene). Saziare continuamente la curiosità offrendo una serie infinita di link portatori di “notizie” superficiali, imprecise, ideologizzate, è la strategia più efficace. Ma come accendere un lumicino in un mondo squassato dalla bufera?
Durante gli esercizi spirituali d’Avvento 2016 per i giovani, il vescovo di Pavia, mons. Corrado Sanguineti, aveva parlato della samaritana, della sua inquietudine e della sua sete: «È sete di bontà, di speranza, di giustizia. Quanti poeti, uomini vivi, hanno parlato di questa sete d’infinito? Pur non credendo, pur non conoscendo il dono di Dio, essi erano mossi da un’arsura profonda, che li spingeva a cercare il senso più profondo della loro vita. È l’incontro con Gesù che placa la nostra sete, ed è solo tenendo viva la nostra inquietudine che siamo mossi verso l’acqua, così da diventare anche noi sorgenti di acqua viva».
La chiave sta proprio qui: tenere viva la nostra inquietudine significa far cadere una goccia (piccolissima ma costante) sui grandi muri di cemento che la civiltà dei diritti sta costruendo. Chiedere, pungolare, andare oltre le rassicuranti bugie quotidiane. E offrire alternative piene di senso ai più giovani (bisogna costruire insieme, genitori, scuole, Chiesa, uomini e donne di buona volontà), perché se i dubbi e le paure vengono coperti dalla confusione crescono nel buio dell’anima e diventano mostri in grado di divorare la speranza. “It” pecca in una cosa (“una”, insomma…): presenta il male come male. Il clown è una cosa bella quindi…? No, il clown del film è qualcosa di sconvolgente: riconosci subito il ghigno demoniaco. Il male oggi non è così. Il male è bello, colorato, affascinante, e non ha nulla di decadente. Ma aguzzando l’olfatto si scopre un malcelato odore di zolfo. Sempre. La verità è scomoda, la verità fa anche paura, perché a volte racconta che stiamo sbagliando tutto, che dobbiamo ricominciare da zero. Ma senza verità non può esserci felicità.
Non ci sono più scuse per trascurare un compito per il quale oggi suona la campana: essere sentinelle d’inquietudine nella calma apparente del politicamente corretto. C’è ancora spazio per costruire, ci sono ancora alleanze imprevedibili da stringere, c’è ancora un residuo di coraggio che può comparire in chi non oseremmo sperare al nostro fianco.
Fonte: IlParcodiGiacomo.blog